giovedì 28 ottobre 2010

Thomas Pynchon mi perseguita

Non contento di avermi allietato la vita per circa una decina di mesi, sembra che il fantasma burlone di Thomas Pynchon (dico fantasma anche se è ancora vivo, forse) non la voglia smettere di irrompere nella mia vita. Oltre alla recensione qui sotto, ieri mi sono imbattuto in lui due volte.
Prima in una puntata dei Simpson andata in onda ieri sera su Italia 1, " Tutto è lecito in guerra e in cucina" ("All's Fair in Oven War"), in cui lo scrittore giudica un piatto cucinato da Marge facendo una serie di giochi di parole sui titoli dei propri libri: "These wings are V-licious! I'll put this recipe inThe Gravity's Rainbow Cookbook, right next to The Frying of Latke 49". Nella serie animata Pynchon appare tre volte, tutte e tre con un sacchetto di carta in testa recante un punto di domanda sulla fronte e sempre prestando la sua voce al relativo personaggio cartoon - il che è significativo, data la sua ritrosia rispetto ai media.
Poi nel libro che sto leggendo, Freedom di Franzen (vedi sempre sotto), un altro riferimento a una sua opera:
Richard was wearing a black T-shirt and reading a paperback novel with a big V on the cover.
Il libro a cui ci si riferisce è proprio V., primo libro di Pynchon uscito negli anni Sessanta:




Stuff I've been reading/1

Thomas Pynchon, Inherent Vice (Vintage)
L'ultimo libro di Pynchon deve ancora uscire in Italia e probabilmente quando uscirà pochi se ne accorgeranno: peccato, perché quest'ultima fatica dell'autore americano senza un volto unisce al meglio la sua fantasmagorica poetica dell'accumulo e dell'assurdo e una leggerezza nella trama e nelle battute che rende Inherent Vice sicuramente più godibile delle altre opere precedenti. L'atmosfera di fine Sixties, mentre il fenomeno hippie affrontava semincosciente la sua fine sopraffatto dall'autoritaria America di Reagan, avvolge le strampalate indagini del detective privato Doc Sportello, tutto impegnato a risolvere gli assurdi casi dei suoi ancora più assurdi clienti, la propria situazione sentimentale incasinata e la propria memoria minata dall'assunzione massiccia di qualsiasi tipo di droga. Un viaggio ironico e spassoso che ci guida nei meandri paranoici e suburbani di una L.A. come immersa in una sorta di nebbia psichedelica di cui anche chi non ha vissuto quegli anni avrà immediata nostalgia.

Michela Murgia, Accabadora (Einaudi)
Premio Campiello 2010 a questo breve romanzo dalle forti tinte sarde. Murgia scrive in modo impeccabile, forse però infarcendo troppo le sue pagine di una sapienza antica interessante ma spesso eccessivamente proverbiali. La storia che racconta - l'adozione di una giovane ultimogenita da parte di una vecchia sarta che nasconde però la segreta attività che la rende nota come l'"ultima madre" (l'argomento dell'eutanasia è delicatamente sfiorato per tutto il romanzo) - appare antica e sospesa come le terre di Sardegna e, se non fosse per quei minimi riferimenti alla modernità, sembrerebbe una vera e propria leggenda. Una leggenda che fa interrogare sulle più profonde relazioni dell'umanità, dalla maternità alla nascita, dalla morte all'amicizia: perché "non c'è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri ad ogni angolo di strada".

Ernest Hemingway, A Moveable Feast (Arrow-Random House)
Nessun parigino (eccetto Baudelaire) ha mai raccontato Parigi come fece Hemingway in questo suo diario dei primi anni francesi (in italiano è Festa mobile). Come al solito, Hemingway scrive di minime cose quotidiane lasciando intendere dietro ad esse storie che mai nessuno potrà raccontare e, soprattutto, nessuno saprà evocare con uguale intensità. Lo scrittore americano poi non nasconde particolari frustranti e intimi della sua vicenda, come la povertà mordente (favoloso il pezzo in cui preferisce andare a vedere gli Impressionisti al Luxembourg a pancia vuota, perché li si gusta meglio), le maniacali abitudini di scrittura (spesso in cafè parigini divenuti celeberrimi) o gli affascinanti risvolti ma in particolar modo i difetti lampanti di grandi nomi della cultura dell'epoca come Gertrude Stein o Scott Fitzgerald. Mai nessun scrittore è stato sincero nella sua prosa come Hemingway, mai scrittore è stato così pregnante nel descrivere la città più poetica del mondo: "There is never any ending to Paris... Paris was always worth it and you received return for whatever you brought to it. But this is how Paris was in the early days when we were very poor and very happy."

Emmanuel Carrère, Facciamo un gioco (Einaudi)
Straordinario brevissimo racconto erotico. Ma qui l'erotismo è l'ultima cosa: quello che è veramente eccitante è la strutturazione dell'intreccio che è un capolavoro di metanarrativa in cui la realtà del lettore si confonde con quella del lettore (o meglio lettrice) originale e in cui le stesse dinamiche di pubblicazione influiscono in modo fulminante sull'effetto ottenuto dalla storia. Si legge in quindici minuti e si rimane folgorati dalla stupenda trovata narrativa. Poi si sa, la vita non va mai come ce l'aspetteremmo.


martedì 26 ottobre 2010

Tractatus Logico-Philosophicus in ebook

Cito da Wittgenstein (il blog) qui, nella mia più fedele tradizione di blogger:

Una cosa che mi pare non sia stata ancora abbastanza discussa nel dibattito sul passaggio dai libri di carta ai libri digitali è il rapporto con l’acquisto del libro. Il libro di carta contiene tradizionalmente in sé due identità fortissime e due ragioni d’acquisto: una legata al suo contenuto e alla lettura, e una all’oggetto. È arcinoto che il possesso dell’oggetto libro è fortemente associato al suo acquisto, e a volte addirittura ne è la ragione prioritaria. Molti di noi hanno detto qualche volta “non me lo prestare, voglio averlo” o viceversa si sono rifiutati di prestare libri già straletti pur di non privarsene. La quasi totalità della carta che occupa ampi volumi nelle nostre librerie è lì unicamente per ragioni sentimentali o di arredamento.

Arriva il libro digitale, e la scomparsa dell’”oggetto libro” col suo fascino e il suo ruolo. E il consueto paragone con la trasformazione che ha riguardato il mercato della musica incontra infine grossi limiti: perché le canzoni, anche disassociate dal feticcio disco, mantengono un loro uso frequente e ripetuto, che resta sempre prevalente. Possedere gli mp3 non significa soltanto possederli, ma significa usarli e goderne con continuità: e infatti si sono sperimentati sistemi di disponibilità d’uso senza possesso. (...)

Si annunciano tempi incasinati e appassionanti. La musica non è morta, nel frattempo.

lunedì 25 ottobre 2010

La lunghezza dell'America

Ormai ho capito, per un serie di indizi, regali, coincidenze e preferenze, che la mia strada è un po' legata alla letteratura americana. E, riflettendo su questo fatto, mi è capitato di fare una riflessione forse anche un po' banale. Ad esempio mi hanno appena regalato il nuovo libro di Jonathan Franzen, Freedom, non ancora uscito in Italia: sono 542 pagine. Un altro romanzo recente e piuttosto acclamato dalla critica, Questo bacio vada al mondo intero di Colum McCann (lui è irlandese, ma da anni vive a New York e di New York il suo libro parla), ne conta 450. Vien subito in mente un grande della letteratura americana recente, David Foster Wallace: il suo fenomenale Infinite Jest ha 1281 pagine. Per non parlare di Thomas Pynchon, di cui mi sono occupato a lungo di recente: raramente i suoi romanzi hanno meno di 600 pagine. Poi mi volto a guardare all'Italia e mi capita subito fra le mani il vincitore del Campiello 2010, Accabadora di Michela Murgia: meno di 150 pagine. Il caso editoriale italiano degli ultimi anni, La solitudine dei numeri primi: 300 pagine.
Ora, sarebbe un'assurdità giudicare qualitativamente un'opera letteraria dal mero dato quantitativo del numero di pagine (e sicuramente mi verranno in mente fra poco numerosi libri italiani appena usciti e molto lunghi), eppure una riflessione la si può, credo io, comunque fare: gli americani - mettendo dentro a quest'etichetta, come al solito, qualsiasi cosa - ancora si permettono di scrivere romanzi lunghissimi, quasi fiume. E trovano anche un discreto numero di lettori. Sarebbe un bel punto di inizio, forse, per riflettere su una cosa che, questa volta sì a livello qualitativo, mi sembra da anni abbastanza lampante: da un lato la perdita di un certo filone del "racconto europeo", che ha smarrito identità e coerenza (con qualche eccezione in Francia e ovviamente in Gran Bretagna), dall'altro la pregnanza e la forza di un discorso letterario americano - basato su realtà, sperimentazione e mancanza di pudore - che ha la possibilità di essere pervasivo e, perfino, logorroico.
Che poi le pagine sono un pretesto, e a volte anche un deterrente per non confrontarci con il troppo voluminoso "altro".

venerdì 22 ottobre 2010

Clay&co. nell'inferno di LA, 25 anni dopo

"Hai visto il mio giornale?" - "Hai provato nell'iPad?"

Sulla rivoluzione digitale di libri e giornali ognuno ha qualcosa da dire, e mai nessuno è della stessa opinione. Qualche settimana fa sul New Yorker, una rivista così eccezionale che non esisterà mai in Italia per la stessa ragione per cui in Italia non c'è New York, esce questo bel pezzo per lanciare la versione tablet della rivista. E per sottolineare ancora una volta l'importanza di una cosa sola, nonostante tutto: la scrittura.

"Beginning with this issue, that generalized instantaneousness has come: The New Yorker will be available on the Apple iPad, on Mondays, wherever you happen to be. Print remains, by miles, our most popular form; unlike a Sunday newspaper, say, the print magazine is still a beautiful, portable, storable, slide-it-into-your-bag-able technology. (...)
We’re at once delighted and a little bewildered about this latest digital development and our place in it: delighted because of the quality of what the tablet provides and the speed with which the magazine can be distributed, but bewildered, too, because we’d be liars if we said we knew precisely where technology will lead. These are early days. Right now, editing for the iPad feels similar to making television shows just after the Second World War, when less than one per cent of American households owned a television. (...)
The one thing we are sure of is the purpose of the magazine. The New Yorker will always be foremost about free expression, about the written word, about reading. Technology, the means of delivering this writing, is a very important, but secondary, matter, and we intend to keep providing the magazine in whatever form seems to work. Editors here are always willing to make improvements in the cause of writing."

February 21, 1925

giovedì 21 ottobre 2010

La prima Liberlist, prima di Liberlist

Liberlist era una rubrica che usciva ogni mese sul Corriere Vicentino, in alcune pagine culturali che qualcuno poi ha un certo punto ha deciso non servire più a nessuno (a ragione?). Da quell'esperimento nasce il titolo del blog, e così il suo obiettivo di parlare di libri in un mondo in cui nessuno parla di libri (o in cui ne parlano tutti, e questo è il problema). Il primo numero uscì nel marzo 2008, ed era questo:

Sei libri utili anche come arma di difesa personale
1. Umberto Eco, Il nome della rosa (Bompiani) Nella mia edizione sono 478 pagine, per di più con la copertina rigida, che fa più male. Ma non è il solo motivo per tenerlo in borsa contro i malviventi: è anche un libro straordinario che insegna, fra le altre cose, che non ci si deve leccare le dita prima di girare le pagine (nemmeno quelle del Corriere Vicentino).
2. Vittorio Sermonti, L’Inferno di Dante (Bur) Poco meno di 650 pagine (e questa è solo la prima cantica). Ci sono tutti i canti dell’Inferno dantesco commentati da uno degli studiosi e dei lettori più competenti e appassionati della Commedia. Per chi non s’accontenta di Benigni.
3. Isaac Asimov, Il ciclo della Fondazione (Mondadori) Se non l’avete letto, vuol dire che di fantascienza siete ancora all’ABC. Si va dalla fondazione di una repubblica in un pianeta sperduto, al crollo dell’impero intergalattico, al superdittatore Mutante. Insomma molto di meglio (e prima) di Star Wars. Il tutto in “sole” 739 pagine.
4. Barbacetto-Gomez-Travaglio, Mani sporche (Bur) Letteralmente un mattone. Ma tanto non arriverete mai in fondo alle 914 pagine. La nausea avrà la meglio molto prima.
5. Miguel de Cervantes, Don Quijote de la Mancha (vv.edd.) L’edizione della Real Academia Española per il quarto centenario di quest’opera immortale ha 1249 pagine, tutte fine fine (ancor più pericolose, perché tagliano). E poi volete mettere stendere uno con le avventure del cavaliere più visionario e strampalato della storia della letteratura? Solo un pazzo (appunto) non si toglierebbe lo sfizio.
6. Giorgio dell’Arti, Catalogo dei viventi 2007 (Marsilio) Se siete famosi o avete fatto comunque cose notevoli siete qui dentro, in queste 1806 pagine. Sennò datevi da fare.