venerdì 30 dicembre 2011

La grande menzogna

Ho scoperto quasi per caso (qui) che questo luglio è morta la scrittrice Agota Kristof. Nata nel 1935 in un piccolo villaggio in Ungheria, scappò nella Svizzera francese nel 1956 in seguito all'invasione sovietica per sedare la rivolta ungherese. La condizione di errante e l'onta della fuga saranno temi ossessivamente ricorrenti non solo nelle sue opere ma anche nella vita di tutti i giorni.
Naturalizzata svizzera, ha scritto solo in francese e mai nella sua lingua madre. Questa scelta, oltre a testimoniare ulteriormente la sua condizione di sradicata, ha dato origine a uno stile narrativo di una concisione impareggiabile; l'andamento scarno, essenziale e quasi elementare scava nel profondo delle parole rivitalizzandole e dando loro ancora più verità, una verità che invece una padronanza classica della lingua sembra camuffare nella retorica e nell'artificio. Mai una parola scelta caso, in Kristof, ogni frase costruita attorno alla sua cruda e tagliente essenzialità.
Ho letto proprio quest'anno La trilogia della città di K., la sua opera maggiore che racchiude Il grande quaderno, La prova e La terza menzogna, tre romanzi legati da una stessa vicenda eppure raccontati da punti di vista differenti. Tutto parte dalla storia di due fratelli, talmente uguali da apparire come un'unica coscienza narrante, che vengono abbandonati dalla madre presso la nonna al fine di salvarli dagli stenti della guerra: in un villaggio sperduto i due bimbi cresceranno prematuramente - anzi s'imporranno di crescere - e affronteranno le atrocità del mondo con astuzia e fermezza. Il modo in cui affrontano la vita e cercano di evitarne la tragedia li dipinge come esseri superiori, quasi al di fuori del concetto di moralità e, soprattutto, di verità. La loro crescita è costellata di vicende che metteranno a dura prova la loro integrità e forgeranno violentemente la loro autocoscienza (sembra che tutti i romanzi, poi, siano percorsi da un sotterraneo e invisibile filone psicanalitico). I due poi cresceranno, si divideranno, si ritroveranno, si scontreranno. E moriranno.
La storia è semplice, lo stile ancor di più. Eppure difficilmente si trovano marchingegni narrativi più sottilmente costruiti, più magnificamente architettati in modo da comunicare con asciuttezza e lasciare il lettore costantemente dubbioso, interdetto.
In Kristof niente è come sembra, ogni mossa è fatta per prepararne un'altra, ogni aspettativa è creata per essere disattesa, ogni verità è comunicata per anticipare la menzogna che essa trasmette. È una narrazione secca ed esplicita, cruda e violenta, ricca di vita eppure vuota di senso ultimo: come disse la stessa Kristof, "a forza di ripeterle le parole si svuotano di significato". Esattamente come la vita, che ci sfugge e ci sferza fino alla meta ultima. Eppure opere letterarie come questa sembrano dare una via di fuga, una finestra di tregua rispetto all'inarrestabile bugia del tutto.
Mi sembra che a fine d'anno sia una speranza di sollievo non da poco.

mercoledì 14 dicembre 2011

For Paris is a moveable feast

Ho visto Midnight in Paris pochi giorni prima della mia partenza per Parigi. Questo film andrebbe guardato solo così: quando da Parigi si è appena tornati o si sta per andarci. Perché, con le sue immagini che mozzano il respiro e il suo elogio mai mieloso ma sempre maestoso, ti fa venire una nostalgia tenera e affettuosa della città, di cui dipinge i luoghi più tipici ma anche quelli più inaspettati. In poche parole è una dichiarazione d'amore.
E poi la maestria di Woody Allen, che mostra qui il suo attaccamento alla Ville Lumière come aveva fatto in Manhattan per New York, è proprio quella di coinvolgerci in una spola fra passato e presente che ha come destinazione principale una Parigi senza fronzoli, senza retorica, ma piena di poesia: quella degli anni Venti, in cui per la città circolavano Hemingway, Scott Fitzgerald, Cole Porter, Dalì, Picasso, Gertrude Stein e compagnia bella. In fondo tutto il film è un elogio del passato anche se il finale fa capire che il passato è meglio riviverlo nel proprio presente piuttosto che nel ricordo malinconico di ciò che è stato. Certo che salta subito all'occhio - e Allen è geniale e spietato anche in questo - che mentre negli anni Venti i personaggi parlano di manoscritti da valutare, di virilità da analizzare, di sogni da mettere in arte, nel 2010 si parla di repubblicani, guerra in Iraq e mobili da migliaia di euro.
Se si vuole trovare qualche difetto forse la trama è un po' lenta, anche se la sceneggiatura è davvero brillante, e Owen Wilson è un protagonista un po' troppo "immobile" pur provando con un certo successo a essere il più alleniano possibile.
Un'altra considerazione, poi: il film è pieno di riferimenti all'ambiente culturale della Parigi della Lost Generation, dove si incontravano artisti e intellettuali di ogni genere; forse per star dietro ed apprezzare appieno tutti i riferimenti (anche sottili, come quando Hemingway chiede al protagonista cosa ne pensi di Mark Twain e lui gli risponde con una frase che effettivamente è stata detta da Hemingway stesso: "Penso che tutta la letteratura americana sia nata da Huckelberry Finn") è meglio fare un piccolo ripasso: magari leggendo Festa Mobile dello stesso Hemingway, oppure Shakespeare and Company di Sylvia Beach, fondatrice della mitica libreria in rue de Fleurus dove si riuniva l'intellighenzia dell'epoca. Allora sì che vi verrà nostalgia, quella vera.

sabato 3 dicembre 2011

Incipit&Explicit 5

Su Cabaret Voltaire di giugno:

“Dalle case non sparavano più, tanto erano contenti e soddisfatti della liberazione. Johnny si alzò col fucile di Tarzan ed il semiautomatico...
Due mesi dopo la guerra era finita.”

Termina così “Il partigiano Johnny” di Beppe Fenoglio. O meglio: non termina. O, anzi, sì, in effetti termina, un punto fermo c’è e la conclusione della storia è che la guerra è finita. Però che fine ha fatto Johnny, il partigiano poco più che adolescente che abbiamo imparato a conoscere in quattrocento pagine di romanzo? Avrà la meglio o sarà sopraffatto? Vincerà o perderà la sua ultima battaglia?

Non lo sapremo mai e, in qualche modo, io sono anche convinto che non abbiamo più di tanto il diritto di chiedercelo. Gli autori non terminano le loro opere per svariati motivi e, anche nel caso in cui queste vengano pubblicate, i lettori devono in qualche modo accettare che possano non avere una conclusione soddisfacente e accettabile.

Nel caso di Fenoglio, “Il partigiano Johnny” non ha una fine a causa delle revisioni incessanti a cui sottopose per anni l’opera (ne esistono ben tre versioni semicomplessive) e anche a causa della sua prematura morte. Ma il finale aperto potrebbe derivare anche da una voluta sospensione di giudizio, sulla vita di Johhny ma anche sulle sorti dell’epopea resistenziale in genere.

Come lettori, qualsiasi siano le cause, facciamo fatica a tollerare questo tipo di finali: a volte ci dispiace quando un libro finisce, figurarsi quando non si conclude. Ma il finale aperto può essere anche una miniera di suggestioni e interrogativi che danno il senso della potenza e dell’infinita capacità della creazione narrativa. Per sconfinare nell’ambito dei film, basta pensare alla straordinaria scena conclusiva di Inception: il fatto che quella trottola si fermi oppure no può generare ipotesi infinitamente diverse. Ma noi non avremo mai risposte definitive. E questo è straordinario.

A proposito di opere incompiute, è uscito da poco, per ora solo in inglese, The pale king di David Forster Wallace, suicidatosi prima di concludere il libro. Quando ci troveremo di fronte a quel finale irrisolto, proveremo angoscia, frustrazione. Ma quello sarà anche il tributo ultimo a una vita geniale.

Incipit&Explicit di questo mese:

Fabio Bartolomei, Giulia e a ltri 1300 miracoli (e/o)

“«L’ultimo lavoro cinque anni fa…».

«Sì, cinque».

«Adetta alle vendite, ramo moda… di preciso?»

«Commessa. Da Cherì, presente? Quel grande negozio a viale Marconi, all’angolo…».

Sorrido ironico e annuisco quando dice “commessa”. Odio i curriculum, odio essere preso in giro…”

*

“Adesso saremmo un gruppo di normalissimi esseri umani che se la fanno sotto dalla paura ma hanno le palle per girare in macchina e tornare indietro. Però chissà. La nostra storia non è finita. Questa giornata poi, è appena iniziata.”