lunedì 20 febbraio 2012

Alla fine si finisce per diventare se stessi. Purtroppo.

Se nel settembre 2008 non avesse deciso che la vita era troppo freneticamente intollerabile per lui, David Foster Wallace avrebbe compiuto 50 anni domani, il 21 febbraio 2012.
Proprio in questi giorni (per caso) stavo leggendo un po' a fatica Come diventare se stessi (minimum fax), il lungo libro-intervista che il giornalista di Rolling Stone di David Lipsky ha pubblicato raccogliendo le registrazioni e le note messea assieme in occasione di un'intervista che aveva fatto allo scrittore nel 1996, cioè subito dopo il grande clamore suscitato dall'uscita di Infinite Jest.
Il libro è un po' difficile da leggere, macchinoso e addirittura noioso in certi punti, con Lipsky che - come spesso capita con i giornalisti di Rolling Stone - vuole dimostrare di essere tanto brillante quanto il suo intervistato. E molto spesso i due si perdono in una ridda di chiacchiere su film e scrittori e riferimenti pop un po' pesanti da seguire, ma che fanno comunque parte del gioco. Più che altro Come diventare se stessi è interessante perché ci fa dare un'occhiata dentro la vita, le abitudini e la mente di Foster Wallace con una freschezza e una verità che qualsiasi altro resoconto più paludato avrebbe fatto fatica a trasmettere.
C'è da dire che chiunque abbia velleità di scrittore non può che provare un'emozione commossa e sofferente nel sentir parlare questo scrittore: in lui si trovano la solitudine, l'insicurezza, l'insofferenza e al tempo stesso l'attrazione per il bel mondo letterario, il costante timore di passare da autore originale a immagine promoziale di se stessi (dice di temere di "prostituirsi", a un certo punto) che possono essere comuni a tutti coloro che provano a tenere in mano una penna; tutto però nel suo caso è acuito da una sensibilità mastodontica e da una genialità quasi soverchiante. Temendo spesso di "non essere altro che testa", David Foster Wallace dimostra di avere un cervello in azione costante, pieno di riferimenti, collegamenti, nozioni, battute, stimoli, osservazioni: è come vivere a "Dave-landia", ammette lui stesso. A un certo punto dice: "A me sembra che la vita sia simile a una luce stroboscobica, e che mi bombardi di input."
Sensibilità come la sua, si sa, sono le più avezze ad essere scottate dal mondo: la paranoia è dietro l'angolo, la depressione ancor più vicina, quasi una compagna, e la tentazione della dipendenza diventa quasi un effetto inevitabile. Chi ha letto La trama del matrimonio di Eugenides sa che il personaggio maniaco depressivo di Leonard è chiaramente basato sullo stesso David: fondere il ritratto reale che emerge da questa intervista e quello fittizio del romanzo dà l'idea di uno spirito troppo intelligente, troppo acuto, troppo lucido e comprensivo del mondo per poter essere salvato. A un certo punto confessa che da giovane, guardando la Tv, pretendeva trame più sofisticate perfino dai cartoni animati.
Eppure David Foster Wallace, nonostante momenti di introspezione o di cupezza, non corrisponde al ritratto tipico del depresso: ha una personalità debordante, è pieno di ironia, a volte perfino goffa (continua a ribadire a tutti, nei giorni che passano assieme, che lui e Lipsky viaggiano insieme ma non come amanti), ha tic buffi e profondamente umani (mastica tabacco, porta sempre una bandana contro la sua sudorazione potente - di questo difetto si parla in uno dei brani più belli de Il re pallido, il suo romanzo postumo), parla di sesso, di donne, di droghe. E poi, nonostante i timori e la destabilizzazione che la scrittura (e quindi l'aspettativa di successo e di apprezzamento) provocano in lui, ha una profonda fede nell'espressione letteraria: "Ho una fiducia incredibile, da bambino di cinque anni, nel fatto che l'arte sia qualcosa di assolutamente magico."
È difficile (e forse inutile) cercare di capire se Foster Wallace, nella profondità della sua conoscenza di sé, avesse in qualche modo già previsto tutto. Pur essendo all'apice della popolarità per Infinite Jest, si era lasciato sfuggire una dichiarazione piuttosto esplicita come la seguente: "Mi vedo come una persona che è stata incredibilmente bruciata da se stessa, in fondo". Molto probabilmente faceva riferimento al suo passato in clinica, o all'abuso di sostanze, o al lavoro estenuante che l'aveva assorbito per concludere Infinite Jest ("ci pensavo tutto il tempo, ci lavoravo tutto il tempo"). Oppure a una generale inattitudine alla vita. Di sicuro era un eterno insoddisfatto: dell'immagine di sé che dava al mondo, della sua scrittura ("ero convinto che non avrei scritto più niente", dice dopo aver composto l'ultimo tristissimo racconto ne La ragazza dai capelli strani), forse di quel mondo là fuori di cui a lui non sfuggiva mai nulla. Sembra una personalità in completo conflitto fra il desiderio di controllo e di successo e di evasione, e la volontà pessimistica di lasciarsi andare e, in qualche modo, autodistruggersi: ripete più volte di avere un "desiderio disperato di abbandonar[s]i a qualcosa".
Forse è riduttivo dire che David Foster Wallace era un genio e quindi, come tutti i geni, non adatto a vivere normalmente fra di noi. Resta il fatto che lui ha deciso che sarebbe dovuta andare diversamente e a noi non resta altro che la nostalgia di ciò che avrebbe potuto essere. Ci restano i suoi libri, in fondo, che sono libri originali, fuori dal comune, strani e straordinari. Chissà se prima o poi si sarebbe convinto anche lui di questo.





p.s. Ricollegandomi al post precedente, a ulteriore dimostrazione della sua originale versatilità e della sua bonarietà senza pari, David Foster Wallace fa un commento insuperabile: "L'ossessione per Alanis Morissette è venuta dopo l'ossessione per Melanie Griffith: un'ossessione di sei anni. E quella a sua volta era stata preceduta da una cosa che adesso ti dico [a Lipsky] e per cui sono stato preso tantissimo per il culo, e cioè una tremenda ossessione per Margaret Thatcher. Per tutti gli anni dell'università: poster di Margaret Thatcher, e lunghe meditazioni su Margaret Thatcher. - Di tipo sessuale? - Non specificatamente... sessuale. Più sensuale, forse."

mercoledì 15 febbraio 2012

Una vita di ferro

The Iron Lady, il biopic di Phyllida Lloyd su Margaret Thatcher, è un film che può provocare fastidio per vari motivi e in diverse maniere.
Primario è quel fastidio, pungente ma positivo, assolutamente positivo, è originato dal vedere una Meryl Streep troppo brava, troppo perfetta, troppo umana, troppo polimorfica. È un troppo che amplifica all'inverosimile l'ammirazione che si può provare per un'attrice del genere, il cui talento fa impallidire qualsiasi altro difetto che il film presenta. I suoi occhi acquei ed emotivi raccontano una storia a sé, un abisso di potere e fragilità (il suo di attrice, e quello di Thatcher come politica), e la voce (studiata nella versione originale per essere il più verosimile) dà un'impronta riconoscibile e famigliare (a proposito: a un certo punto, la scena di "logopedia" non può non essere un tributo o una citazione al fenomeno di successo che è stato The King's Speech l'anno scorso). E la cosa sorprendente che Streep riesce a essere fortemente e vibrantemente se stessa pur sottoponendosi a ore e ore di trucco e calandosi convincentemente nei panni del personaggio che interpreta.
C'è da dire, nonostante ciò, che The Iron Lady è un film duro da digerire: ecco l'altro fastidio. Lo spunto narrativo, quello di raccontare la vita di Margaret Thatcher partendo dalle sue allucinazioni in età senile (Thatcher è effettivamente affetta da Alzheimer) è spinto al limite della credibilità (e della liceità?) da quanto è assiduo e a un certo punto - soprattutto nella parte iniziale - dà al film un aspetto alterato e confusionario: immagine e voci che si sovrappongono pesantemente, montaggio serratissimo, inquadrature distorte... A un certo punto sembra pure che un ricco racconto biografico sia penalizzato da questo continuo effetto a flash.
È duro da digerire, inoltre, anche il personaggio storico stesso incarnato da Thatcher: il rischio di fare un film agiografico era enorme, soprattutto per una figura storica così controversa, e invece il primo ministro ne esce in tutta la sua compatta e stolida ambivalenza. Fu politico determinato e forse spietato, ma lottò per i suoi ideali con rigore e coerenza; smantellò lo stato sociale e creò dissenso e disagio senza pari, ma salvò la compattezza nazionale e l'apparenza di ciò che era rimasto dell'Impero britannico; fu madre assente e complicata (e premier umorale e "maternalistico") ma da donna combatté energicamente per rivendicare identità e autorevolezza in un mondo fatto di maschi, che non esitarono comunque a farla fuori.
Ancora scottati dalla sua politica ferocemente austera, in Gran Bretagna (ma il film è fatto sostanzialmente per gli Stati Uniti) si temeva da più parti una rivalutazione univoca della sua vita e della sua azione politica. Eppure un altro fondamentale pregio di questo film è quello di non esprimere valutazioni, di presentarci un personaggio per molti aspetti notevole senza dirigere lo spettatore verso un giudizio prestabilito. Alla fine della pellicola rimane solo l'immagine di una donna che, partendo dal nulla, arrivò praticamente a cambiare le sorti del mondo ma che al giorno d'oggi deve affrontare ciò che tutti, buoni o cattivi, alla fine dovremo affrontare: la solitudine e il tramonto.