martedì 24 aprile 2012

Il senso della fine

In un intervento sulla Domenica di questa settimana, Tim Parks sostiene che può essere lecito abbandonare i libri a un certo punto, anche quelli buoni, quando è giunto il momento giusto (alcuni testi segnalerebbero addirittura da sé quando arriva quel momento), e che forse avrebbe di molti libri una considerazione meno positiva se li avesse portati a termine. È una posizione interessante, ma più ci penso e più la trovo parziale: un film di Hitchcock avrebbe lo stesso effetto senza gli ultimi dieci minuti finali? E l'ultima cena di Veronese se gli togliessimo una fascia di 10 cm in fondo? E un sonetto di Petrarca senza l'ultima terzina? Sembra una banalità dire che le opere d'arte tutte, e quelle letterarie in generale, siano tali perché costruiscono pagina dopo pagina, elemento dopo elemento, un percorso che porta al compimento finale, che è inevitabilmente un compimento globale. Certo, difficilmente definiremmo certi libri opere d'arte, ed è responsabilità di molti autori non sapere reggere tensione e qualità narrative fino alla fine. Però, bello o brutto che sia, il finale fa parte del libro (nonostante la mancanza di conclusione in sé lasci margini a possibilità espressive davvero interessanti). E abbandonare un libro è più che legittimo, però non mi pare possa essere giustificabile dal punto di vista estetico o critico. Ovvero: abbandonare un libro è una pura scelta del lettore, appunto giustificabile ma arbitraria. A volte ci fa semplicemente comodo, per svariate ragioni, e molti critici lo sanno bene.

sabato 21 aprile 2012

To Rome With (No) Love

A un certo punto di To Rome With Love, un personaggio - non ricordo già più quale - dice che la gente dovrebbe riacquistare la sensibilità all'angoscia universale. Ecco, credo che il pubblico dell'ultimo film di Woody Allen sappia molto bene che cos'è la sensibilità all'angoscia universale.
Spiace, dopo un film poetico e rapitore come Midnight in Paris, trovarsi di fronte a un'opera così sconclusionata e trascinata. Allen continua la sua serie di pellicole dedicate alle grandi città europee (pare tocchi a Berlino la prossima volta), e così Roma diventa il soleggiato - e scontato - palcoscenico di quattro storie una più improbabile dell'altra: un architetto di mezza età (Alec Baldwin, che è come il vino buono) incontra il proprio io da giovane e cerca di metterlo in guardia dall'invaghirsi di un'attrice, facendogli da coscienza fantasmatica; due giovani sposi cedono alla tentazione di concedersi una scappatella extraconiugale, lui facendo esperienza con una escort (Penelope Cruz, nella sua tipica sensualità tutta fasciata Dolce&Gabbana) e lei cedendo alle lusinghe di un attore famoso e formoso (Antonio Albanese, proprio improbabile nella parte di seduttore); un normale impiegato (Roberto Benigni) giunge inspiegabilmente alla ribalta e deve scontare le difficoltà della persecuzione mediatica e della repentina scomparsa della stessa; un vecchio americano (Allen) arriva nella capitale per conoscere il futuro genero, ma poi convince il padre di lui ad esibirsi come un improbabile cantante lirico che canta solo sotto la doccia, anche in scena. Certi episodi, comunque, come ha mi ha fatto notare un amico, erano solo degni di un cinepanettone: lì di certo non avrebbero sfigurato.
Tutto è cliché e prevedibilità (dal provinciale con la camicia allacciata fino all'ultimo bottone alla processione votiva...), ogni dettaglio è aggiunto per rendere le scene ancora più grottesche e meno credibili. I dialoghi, poi, sono di una banalità allucinante: "Intrufoliamoci alle terme stasera" - "Ma come facciamo?" - "Tu Leo sai forzare i lucchetti, vero?" - "Ma certo!"; "Ma perché sono così famoso?" - "Lei è famoso per il fatto di essere famoso. Nella vita si può essere ricchi e famosi o poveri e normali, ed è sempre meglio essere ricchi e famosi."
Lo sconcerto del film è aumentato dalla carrellata impressionante di attori italiani che avrebbero venduto un nipote pur di avere venti secondi nella pellicola: da Ornella Muti a Giuliano Gemma, da Gianmarco Tognazzi a Lina Sastri a Riccardo Scamarcio e così via (l'unica convincente sempre essere Alessandra Mastronardi, che paradossalmente viene dai Cesaroni); lo stesso Benigni fa una magra figura, dimostrando ormai di non essere in grado di interpretare che se stesso, il grullo che a un certo punto deve calarsi le braghe e far vedere i mutandoni bianchi.
Il film è una fiera dell'approssimazione e della pochezza, e forse in questo Allen (che peraltro, essendo quel regista geniale che è, a volte riesce comunque a strappare risate sane e spontanee, nonostante tutto) è riuscito a ritrarre perfettamente le qualità più intrinseche della dinamica italica. Anche l'estrema commercializzazione sembra essere un grottesco tributo al produttivo made in Italy, con un product placement che più selvaggio non si può: mai visto attori bere così tanta acqua in un film, complice l'accordo milionario con la San Benedetto; in un dialogo fra Ellen Page e Jesse Eisenberg, una confezione di salumi Beretta in bella vista solo l'elemento più espressivo della scena.
All'inizio il film doveva intitolarsi Bop Decameron, ma Allen ha dimostrato di non aver nulla dell'ironia e della propensione a scavare nelle debolezze umane che aveva Boccaccio: forse sarebbe meglio che ripensasse bene al fatto di sfornare un film ogni sei mesi.