sabato 19 marzo 2011

Franzen su Cabaret Voltaire

E' uscito il nuovo numero online di Cabaret Voltaire con un mio pezzo su "Libertà" di Franzen.

Lo scrittore Alessandro Piperno, nel recensire l’uscita in Italia di Libertà, il nuovo libro di Jonathan Franzen (pubblicato negli Stati Uniti l’anno scorso col titolo originale Freedom), cita una frase di Kafka: “Tu sei libero. E di qui inizia la tua perdizione.” Nemmeno l’autore, probabilmente, avrebbe potuto scegliere un’epigrafe così efficace per un libro del genere, un libro che ci mette di fronte all’epopea quotidiana d’America, alla sua incommensurabile, libera grandiosità, ai limiti di quella che è la delizia e la croce umana per eccellenza: la scelta.

Freedom è un romanzo complesso, non solo nella sua struttura formale ma anche da leggere. Ad esempio, pur essendo effettivamente notevole, ha dei punti di una noia e di una cavillosità da far desistere anche i meglio intenzionati. Eppure lascia un segno chiaro soprattutto nel finale, che è scontato ma talmente ben scritto da essere l'unico possibile per una storia così. L'effetto complessivo è quello di una grande cattedrale ben (forse troppo) strutturata.

Dopo Le correzioni (la sua terza opera, ma che l’ha lanciato come enorme rivelazione nel mondo letterario americano nel 2001), Franzen torna a dipingere un grande affresco di una famiglia, i Berglund, in cui tutti i componenti sembrano essere a loro modo disfunzionali: la madre ex campionessa ormai devota alla vita casalinga ma non appagata dalle scelte fatte, il padre perfezionista che combatte le sue personali lotte contro i mulini a vento della protezione ambientale e della politica, il figlio che vuole ribellarsi a tutti i costi al volere famigliare e quindi sposa l'insignificante vicina di casa e finisce per mettersi nei guai cercando una propria indipendenza, la figlia troppo apatica per accettare qualsiasi situazione.

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giovedì 17 marzo 2011

150 anni anche io: ma da domani

Devo essere sincero: con questi 150 anni dell'Unità d'Italia un po' mi avete sfrantecato i maroni. Non prendetela come un deriva leghistoide. E' piuttosto una lucidità un po' originale che mi porta a sentirmi estremamente poco italiano, in generale. Preferisco vivere il mondo, là fuori, senza dover per forza limitarmi ad essere di un posto solo: di etichette ce ne sono già troppe.
E scusate la franchezza: essere italiani cosa significa esattamente? Perché poi alla fine gli Italiani se hanno una cosa davvero in comune è quella di dividersi e di odiarsi ad ogni occasione buona: destra vs sinistra, nord vs sud, milanisti vs interisti, professionisti vs operai, vicentini vs veronesi, a chi piace Michelle Hunziker vs a chi non piace Michelle Hunziker... Non che negli altri paesi vada meglio, eh: prendete l'Inghilterra, in cui se dite a uno scozzese che è inglese vi soffoca con un kilt; o la Spagna, dove un catalano venderebbe la madre pur di essere indipendente da Madrid; o addirittura il Belgio, in cui non c'è un governo da mesi e mesi perché valloni e fiamminghi non riescono a trovare un accordo. Però ho come la sensazione che lì un'identità che in qualche modo li leghi ci sia (forse anche per il pregiudizio recondito che quello che fanno gli altri sia inevitabilmente migliore), un'identità che si sforzano di mantenere ogni giorno, nel bene o nel male.
Io dell'Italia ho un po' l'idea preconcetta che si fanno certi turisti che vengono qui: siamo caciaroni, buontemponi, piuttosto menefreghisti, un po' rozzi e parecchio anomali. Toglieteci il cibo, la moda e il Papa e ci resta poco che dica veramente chi siamo.
Certo, c'è la poesia, c'è l'arte, c'è una storia culturale potente che ci caratterizza (e in fondo quelli che hanno fatto il Risorgimento, dato che non è mai esistita una definizione geografica precisa di Italia, si erano posti come obiettivo di riunire le terre che parlavano più o meno una lingua comune, che avevano una cultura simile): ma tutte queste cose appartengono al passato, appunto, e questo scarto si avverte sempre di più in un'attualità che della cultura si fa continuamente beffe, quasi fosse un inutile orpello.
Insomma, io ho l'impressione - e vado controcorrente, lo so, mi aspetto commenti acidi e sputi nell'occhio per ciò - che questo 17 marzo si sia riempito di una retorica esagerata e un po' di comodo: fatichiamo a capire chi siamo adesso e dunque ci aggrappiamo a una data di tanto tempo fa in cui si era compiuto qualcosa di magico e fondamentale (perché l'Unità d'Italia fu veramente qualcosa di magico, visionario, romantico, fondamentale). Ma non posso fare a meno di chiedermi: e domani? Il 18 marzo, e il 19, e i giorni che verranno dopo, come ci sentiremo? Ci sentiremo più italiani, più uniti? Secondo me no, anzi, torneremo in noi stessi, come dopo una potente sbornia tricolore, torneremo ad essere gli Italiani di sempre: quelli che si odiano sempre fra loro, quelli alla buona, pressapochisti, un po' sonnacchiosi, quelli che si indignano a comando, quelli che si infervorano nelle date importanti (appendiamo adesso fuori dal balcone i tricolori come facciamo esclusivamente durante i Mondiali, e non ogni 2 giugno ad esempio) ma che poi sembrano costantemente calati in un'apatia colpevole il resto dell'anno.
Massimo D'Azeglio, in una delle prime sedute del Senato dell'Italia unita, disse: "Abbiamo fatto l'Italia, ora bisogna fare gli Italiani". Ecco, io apprezzerei di più questo 17 marzo se non fosse un fatto di orgoglio un po' esteriore, ma diventasse un impegno pungoloso per "fare gli Italiani" ogni giorno, per renderci ogni giorno un po' più orgogliosi di noi stessi. Perché se c'è qualcosa di cui l'Italia ha un disperato bisogno in questo momento non è la commemorazione di un passato pur glorioso (ma anche problematico, se chiedete a qualsiasi storico), ma di uno slancio potente verso il futuro.
Che poi di essere italiano ho anche io i miei personali punti d'orgoglio: non sto mica scrivendo in sanscrito, ad esempio...

giovedì 3 marzo 2011

Noi gli Oscar li vediamo solo fino al red carpet

Se quest'anno più di altri l'assegnazione degli Academy Awards era marchiata da un tasso di prevedibilità piuttosto alto (qui si tifava per The King's Speech e per Colin Firth, a prescindere), non altrettanto prevedibili erano gli abiti che hanno sfilato sul tappeto rosso. E, diciamocelo, ormai l'unico motivo d'interesse per gli Oscar è proprio quello (quando ci fu lo sciopero della Writers Guild, qualche anno fa, che rischiava di far saltare la serata degli Oscar, le case di moda volevano spararsi).
Insomma, diamo una rapida occhiata agli outfit più o meno riusciti della serata, in rapida successione (la fotogallery di riferimento per farsi un'idea è quella del New York Times). Iniziamo con Natalie Portman che porta un vestito Rodarte che più che premaman è pre-salaparto, e per di più sembra un sipario: con quelle guanciotte lì non le si può dire niente però. Anne Hathaway indossa un Valentino tanto per sfatare il cliché che tutti i migliori abiti di Valentino (presente, almeno sotto forma di mummia, al red carpet) sono rossi; Reese Witherspoon col suo Armani Privé e quella chioma lì può tornars...ene anche negli anni Cinquanta che noi non ce facciamo niente; Sandra Bullock si è messa un Vera Wang rosso sperando che tutti credessero fosse un Valentino ma gli è andata buca; Kathryn Bigelow si è dimenticata di restituire la tunica YSL alla tizia che faceva Maria Maddalena nel musical lì di fronte; Robert Downey Jr è sempre impeccabile, qui in white tie; la regista di "The Kids Are All Right" ha investito un procione e se l'è messo al collo; Christian Bale poteva anche farsi la barba, ma forse non aveva capito che stava andando al Kodal Theatre e non a farsi un cicchetto al bar all'angolo; Mark Wahlberg indossava uno smoking Armani che ha fatto domandare a molti come facesse quel botolo ad essere una volta il testimonial supermuscoloso di Calvin Klein; a proposito di Klein, Gwyneth Paltrow mai così radiosa (forse perché sta lasciando Chris Martin, sempre così depresso...); la tipa che sta con Matthew McConaughey non ha capito che è già abbastanza appariscente per via dell'uomo con cui sta e non serviva si portasse dietro anche il tendone del circo Togni; Annette Bening si è fatta pettinare nella sala del vento della Ferrari, mentre Helen Mirren ha scelto il Vivienne Westwood più noioso che c'era in catalogo (e poi scusa: già sei vecchia, in più te vesti de grigio?); Nicole Kidman in Dior pensava di dover interpretare Madame Butterfly e forse dovrebbe anche capirlo che con i capelli raccolti proprio non sta bene; scusate se sono ripetitivo ma mettete assieme Colin Firth e Tom Ford e ottenete il top dello stile maschile, in più sua moglie Livia è un delirio di eleganza nonostante l'alettone posteriore; io il vestito di Hilary Swank l'ho visto già adosso a qualcun'altra, l'anno scorso, giuro; è capitata lì per caso sul red carpet anche Helena Bonham Carter, fra una ripresa di The Nightmare Before Christmas 2 e l'altra, con dei vestiti che prego iddio si sia cucita da sola un giorno che aveva la congiuntivite; l'abbiamo capito tutti che Sharon Stone, dopo quel tubino bianco quando accavallava le gambe, non s'è più saputa vestire in modo decente, vero?; la moda orientale deve andare molto quest'anno perché Scarlett Johansson s'è fatta fare un vestito da Dolce&Gabbana usando le tende della Città Proibita; Cate Blanchett portava un Givenchy piuttosto difficile, ma io di questa donna non riesco a parlar male; Jennifer Hudson aveva un vestito di un colore Versace che solo a lei poteva star bene, però restituitemi la Jennifer Hudson di prima, questa qui mi sembra appena tornata dal Biafra, no no no; ma Geoffrey Rush sta male?; la moglie di Mark Ruffalo s'è portata due vestiti invece che uno, ma s'è dimenticata il reggiseno; fate qualcosa anche per Michelle Williams, che se diventa un attimo più bianca si trasforma una supernova; al New York Times si sono sbagliati e hanno creditato come Moby uno degli impiegati della ragioneria del Kodak Theatre che è passato lì per caso; a Florence senza la Machine, poverina, nessuno ha detto che il giallo agli Oscar puoi portarlo solo se sei una strafiga da paura e per di più ispanica; Melissa Leo si è fatta il vestito coi centrini che le ha spedito mia mamma; Jennifer Lawrence (chi!?!) ha scelto un Calvin Klein che era una riproduzione dei costumi da bagnina di Baywatch; Lara Spencer (ri-chi?!!?), invece, non si è resa conto che mettersi il vestito di Poison Ivy, la cattiva di Batman, forse non era proprio una buona idea.
Non credo di essere stato troppo cattivo, magari l'anno prossimo andrà peggio.


Oltre la comunicazione

Di recente, a parte la voglia crescente di impallinare a proiettili di sale tutta la dirigenza del Pd, tanto che viene da ringraziare il cielo che in Italia non c'è la legge sul testamento biologico sennò gli avremmo staccato la spina già da mo', bisognerebbe prendere a sassate anche quelli che nel Partito democratico curano la comunicazione. Adesso, dopo l'ideona del PierLu con le maniche "rimboccate", hanno messo a punto una nuova campagna di comunicazione che si chiama OLTRE e ha slogan del tipo: "Oltre le divisioni c'è l'Italia unita", "Oltre il disprezzo delle regole c'è la Costituzione", "Oltre gli steccati, c'è la tua città", che è più facile risolvere per quaranta sere di fila la Ghigliottina dell'Eredità che capire cosa significhino (probabilmente nulla, alla fine). Comunque, siccome ci tengo alla causa, potrei proporre nuovi slogan anche aggratis: "Oltre le gambe c'è di più", "Verso l'infinito e oltre con Buzz Lightyear", "Gettiamo tutti il cuore oltre l'ostacolo". Secondo me, nun ce la faremo mai.
p.s. Da oggi Liberlist cambia un po', arrivando a comprendere anche cose su comunicazione, costume, moda e televisione che di solito condividevo in cerchia più ristretta su Facebook, senza però che libri, cinema e altre forme di racconto passino in secondo piano.