venerdì 31 dicembre 2010

Ehi, buon anno

Prendetelo come un regalo per le feste (non richiesto, per altro): è un numero mai uscito di Liberlist, la rubrica che tenevo sul Corriere Vicentino, è del marzo 2008. Indipendentemente da questo, auguri.

Cinque libri che non fareste leggere a vostra nonna

1. David H. Lawrence, L’amante di Lady Chatterley. È stato il libro più scandaloso e censurato dell’Inghilterra vittoriana di inizio ‘900 (quindi è probabile che vostra nonna in effetti l’abbia letto). E dalle conturbanti scene fra l’ingenua signora di campagna e il rude guardacaccia si capisce anche il perché, o forse no, guardando certa tv d'oggi.

2. Irvine Welsh, Trainspotting. Eroina, alcolismo, perversione sessuale, violenza gratuita, paranoia: un viaggio sconvolgente e disturbante nel nichilismo giovanile degli anni ’80. Nella speranza che non siate stati anche voi quel genere di nipoti.

3. Michel Houellebecq, La possibilità di un’isola. Un comico di fine ventesimo secolo annota i fatti della sua disperata vita, che sarà letta e integrata da due cloni suoi discendenti, migliaia di anni dopo. Sul fondo apatia, perversioni, pessimismo e la coscienza di una mancanza esistenziale e di una società fluida, immorale, interrotta. La nostra?

4. Pietrangelo Buttafuoco, L’ultima del diavolo. Se volete che la fede della vostra nonnina vacilli, fate pure. Buttafuoco - nomen omen - non smentisce la sua vocazione a disturbare ma soprattutto provocare con trame imbevute di scontro religioso, eterodossia e satanismo. In questo romanzo appena uscito, protagonista è il cardinale napoletano Taddeo, snob e dissoluto, per alcuni figura più realistica che inventata.

5. Carolina Tutolo, Pornoromantica. Non è la prima blogger a debuttare in letteratura. E lei lo fa con particolarissime lezioni di sesso, senza pudore, con molta ironia e con una disperata fede nel romanticismo.

(Giochino: in questa rubrica avevo barato, vediamo se indovinate quale dei libri in realtà non ho mai letto.)

giovedì 30 dicembre 2010

Il meglio del 2010 (per lei)

Daria Bignardi, sul suo blog sul nuovo sito di Vanity Fair, sceglie i migliori libri del 2010 (Emmaus è del 2009, ma è bello lo stesso.)

E’ il momento delle liste: film dell’anno, libro dell’anno, uomo dell’anno, donna dell’anno. Io mi ricordo sempre solo le ultime cose che ho visto o letto, ma forse il più bel libro di quest’anno è stato L’uomo verticale di Davide Longo che è uscito a gennaio e ancora me lo ricordo, buon segno. Anche La vita oscena di Aldo Nove mi sembra un gran libro, e a me erano piaciuti tanto Emmaus di Alessandro Baricco, Invisibile di Paul Auster e, più di tutti, Homer & Langley di E. L. Doctorow. Però, me ne sono ricordati ben cinque.

venerdì 24 dicembre 2010

5x5x5: il meglio del 2010 (per me)

libri:

1. Colum McCann, Questo bacio vada a tutto il mondo (Rizzoli)

2. Daria Bignardi, Un karma pesante (Mondadori)

3. Michael Cunningham, Ai limiti della notte (Bompiani)

4. Michela Murgia, Accabadora (Einaudi)

5.Bret Easton Ellis, Imperial Bedrooms (Einaudi)




musica:

1. Kylie Minogue, Aphrodite

2. Take That, Progress

3. Scissor Sisters, Night Work

4. Robyn, Body Talk

5. Hurts, Happiness



cinema:

1. Bright Star (Jane Campion)

2. The Social Newtork (David Fischer)

3. A Single Man (Tom Ford)

4. An Education (L. Scherfing)

5. La prima cosa bella (Paolo Virzì)


mercoledì 22 dicembre 2010

La poesia

"Però. Mi interessava la poesia.
Perché potevo leggerla per una pagina e chiudere il libro senza dovermi chiedere come sarebbe andata a finire. Perché era a frammenti, come la mia vita. Perché sapeva raccontarmela in modo aspro, senza la compassione che si dà a chi non sta bene. Aprendone squarci improvvisi.
Perché cercava la verità e non il successo.
Perché la vera poesia è crudele.
Perché la vera poesia fa male."
Da Aldo Nove, La vita oscena, Einaudi, 2010

martedì 21 dicembre 2010

Stuff I've been reading/2

Michael Cunningham, By Nightfall (4th Floor; in italiano Ai limiti della notte, Bompiani)

Chi conosce Cunningham, e due suoi romanzi in particolare (cioè Carne e sangue e The Hours), ai primi accenni della trama sa già come questa inevitabilmente si svolgerà: Peter Harris, un gallerista d'arte newyorkese di mezz'età, stressato e insoddisfatto (anche se non lo ammette nemmeno a se stesso), ospita con la moglie il fratello di lei, Mizzy, scapestrato e con storie di dipendenza dalla droga, ma bello e intrigante come un'opera d'arte. L'esito potrebbe risultare scontato, eppure Cunningham sorprende con la verità sconcertante con cui fa evolvere la storia: effettivamente fra il frustrato uomo maturo e l'avvenente ragazzo maledetto ci sarà attrazione, ci sarà l'inevitabile e sbagliato (ma per questo ancor più gobile) coinvolgimento, ma questo porterà le loro esistenze su binari ancora più imprevedibili. In effetti Cunningham sembra accorgersi della scontatezza del suo punto di partenza, per questo condisce il romanzo con efficaci digressioni sul mondo del commercio d'arte, ad esempio. Eppure il suo libro è forte e duro e reale proprio perché racconta le ovvietà e i dubbi che ogni nostra vita dimostra; in particolare Cunnigham è magistrale nel raccontare come siamo risolutamente attratti verso le scelte che sappiamo bene essere le più sbagliate, le più dannose, che sono comunque anche quelle che ci fanno sentire più vivi e più padroni di noi stessi, che sappiamo ci portano dove segretamente e fortemente vogliamo andare. L'autore entra nella testa del personaggio principale con rara efficacia, lo denuda e lo fa reincarnare nella più vera, universale realtà. E universale appare anche lo sfondo su cui vengono narrate le storie d'amore al centro del libro: tutte senza un centro, puntellate sulle vite insoddisfatte dei componenti della coppia, avvolte nel costume sfuggente delle bugie, sfuggenti tanto quanto separate procedono le vite che difficilmente si fondono compiutamente in una. Le relazioni in By Nightfall non sono mai come sembrano innanzitutto ai personaggi che le vivono, proprio perché nascono sempre da insofferenze tacite, psicoanalizzate ma poi subito sommerse.

Elemento dominante è anche la notte che tutto vela e disvela. I turbamenti più profondi ma anche le conversazioni con se stessi che sono anche salutari liberazioni avvengono nella notte affacciata su una New York addormentata in cui l'unico essere ancora sveglio sembra Peter, insonne e pieno di rovelli (oltre ovviamente all'uomo che lui vede ogni notte affacciato alla finestra dell'edificio di fronte, solitario compagno di insonnia e dubbi esistenziali).

Dire che la narrazione di Cunnigham è degna di Virginia Woolf (suo esplicito punto di riferimento) è forse troppo, dire che è però fortemente e fortunatamente modernista si avvicina più al vero (ci sono delle pagine di descrizione della neve che cade che richiamano senza dubbio a "I morti" di Joyce). Di sicuro, a parte qualche eccesso di verbosità qua e là, è una prosa che scava dentro, che lascia irrequieti, che fa chiudere il volume pieni di dubbi e di soluzioni irrisolte.


John Keats, Leggiadra stella. Lettere a Fanny Brawne (Archinto)

Il poeta romantico John Keats muore nel 1821, a soli 26 anni, consumato fino all'ultimo dalla tisi ma soprattutto dall'amore troppo intenso e mai compiutamente vissuto per la giovane Fanny Brawne, conosciuta appena due anni prima. L'epistolario ci permette di rivivere queste emozioni, riportano in vita tutto l'amore, la consunzione e perfino tutto il freddo e l'umidità che deve aver patito nel scriverle il poeta, sempre preso a lottare con una vocazione che lo avvicinava all'arte assoluta ma al contempo lo svuotava di vita. Era comunque un uomo in grado di scrivere frasi come: "Il mio amore mi ha reso egoista. Non posso esistere senza di te. Mi dimentico di tutto tranne che di rivederti - la mia vita sembra fermarsi lì - non vedo oltre. Mi hai assorbito."

Queste lettere ci portano indietro a un'epoca di passioni intense di amori epistolari e di vite sofferenti, appese a un filo; soprattutto, a un periodo in cui un giovane ventenne poteva avvicinarsi terribilmente al genio più puro e nonostante questo (o proprio per questo) morire così precocemente.


Paul Auster, Trilogia di New York (Einaudi)

Uno pensa che le invenzioni letterarie possano a un certo punto esaurirsi col passare dei secoli, invece leggendo queste tre opere di Auster (il classico Auster) ci si deve ricredere. Sono tre detective stories sui generis, con protagonista assoluta New York (sarà un caso, ma di tanti libri letti in questo periodo New York è la città più ricorrente) e il suo modo di vivere un po' caotico ma soprattutto noncurante delle identità che la popolano (un amico una volta mi disse: "New York mi fa paura perchè sembra poter continuare a vivere senza le persone che la abitano"). In effetti l'identità, la perdità o la mutevolezza di essa sembrano essere l'ossessione più tipica e ricorrente in Auster (e nell'uomo moderno, forse), che la traduce in pedinamenti, storie discordanti o che si confondono, detective privati che vengono svuotati del loro ruolo venendo assoldati per missioni inutili o si scoprono inseguiti a loro volta. I risultati più eccelsi si trovano sicuramente nel primo Città di vetro, in cui compare come personaggio lo stesso Paul Auster: è una storia ad incastro in cui un detective a cui si richiede di sorvegliare un vecchio finisce per perdere la concezione di se stesso perdendosi nell'ossessione di chi invece l'aveva assoldato. In Fantasmi un altro pedinamento, anche qui reso assurdo dal fatto che chi pedina è a sua volta vittima di una cospirazione; in La stanza chiusa, altra bellissima storia, un uomo prende quasi letteralmente il posto di un vecchio amico di infanzia scomparso, cadendo però nella paranoia che questa sostituzione e il riapparire dell'altro comporta.

Lo stile postmoderno di Auster è assolutamente invidiabile nella costruzione delle trame, così sottili e intricate, però a volte lascia a desiderare a livello di successione degli episodi a volte sbrigativo e di caratterizzazione dei personaggi, che risulta talvolta un po' banale. Si arriva in fondo, però, a quei finali aperti così enigmatici e misteriosi, così metaletterari, e gli si perdona tutto.


Tony Kushner, A Bright Room Called Day (TCG)

Kushner è un affermato drammaturgo americano, praticamente sconosciuto in Italia se non per il passaggio in tv di una stupenda miniserie Hbo tratta dalla sua opera più famosa, Angels in America. In effetti le sue trame sono complicate e cupe, sospese fra un coté misterioso, mistico e quasi magico, e una ossessiva denuncia politica degli avvilimenti del sogno americano, contestualizzata in particolare nell'avvento della politica di stampo reaganiano. E' proprio dal polemico (eccessivo?) paragone fra Reagan e Hitler che prende spunto questo dramma ambientato fra la Germania di Weimar all'alba del governo nazista e l'America di Reagan, appunto, in cui una strana figura femminile denuncia in qualsiasi modo il demoniaco presidente. Le due epoche, come le descrive Kushner, sembrano terribilmente simili, con il "male" dell'indifferenza e dell'odio che si insinuano sottilmente e silenziosamente nella società, in cui alcuni personaggi "illuminati" non possono far altro che osservare lo sfascio di tutto. Ognuno prenderà strade diverse, tutte però - sembra di capire - destinate al fallimento: chi fugge all'estero, chi vive in clandestinità per cercare la rivoluzione, chi resta nella "stanza illuminata" ad aspettare ciò che accade. Tutto è immerso in un'atmosfera asfissiante e oscura, dominata da presenze spiritiche e loschi ambigui figuri, perfino i dialoghi sembrano ridursi all'essenziale che, come sempre in Kushner, è un essenziale pieno di inventiva, ironia e guizzante destrezza linguistica. Alla fine resta un'unica certezza, comunque: con le parole, col teatro o con qualsiasi altro mezzo, l'unica via per combattere il male che avanza è quella di agire, di far sentire la propria voce. Altrimenti siamo destinati ad assistere da spettatori a una tragica storia che continua a ripetere se stessa.


domenica 19 dicembre 2010

Work in progress

Libri da leggere, recensire e/o studiare per gennaio. E' uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo.


venerdì 17 dicembre 2010

Il grande mondo che gira

Descrivere un libro come Questo bacio vada a tutto il mondo è piuttosto difficile perché è un romanzo intenso in cui si vede l'intrecciarsi di tante esistenze apparentemente isolate ma che, nel grande flusso inarrestabile della vita, s'intrecciano a volte sfiorandosi, a volte impattando con violenza. La protagonista assoluta del romanzo è sicuramente New York, attraversata da cima a fondo dai condomini chic di Park Avenue fino al più malfamato casermone del Bronx; tutt'attorno un corteo di personaggi, tutti con le proprie sofferenze e con le proprie speranze, tutti in qualche modo alla ricerca di un loro spazio, di un equilibrio: un prete irlandese che si danna l'esistenza per salvare dalla strada delle prostitute e salvare se stesso dall'amore che prova per una donna madre, le stesse prostitute che si raccontano in modo nudo e sincero, il fratello di lui che assiste alla sua e alla altrui autodistruzione una donna di alto ceto che ha perso il figlio in Vietnam ed è ossessionata dal sembrare banale, un giovane ispanico che cerca una dimensione fotografando graffiti in metropolitana, una giovane di buona famiglia che cerca di farsi un'identità nel mondo della sperimentazione artistica. Tutti attraversano vite disparate e disperate, condite di droga, alcool, nevrosi, tutti sperano in un incontro, in un filo che riprenda a definire il loro cammino.

Le metafore dell'equilibrio e del filo non sono casuali. Se nell'ultimo decennio si è più volte raccontato New York attraverso quel tragico e iconico evento che è stato l'11settembre, c'è stato un altro fatto che per anni si è imposto nell'immaginario che descriveva la citta americana, sempre in relazione alle Torre Gemelli: il 7 agosto 1974. un acrobata, Philippe Petit, dopo aver teso un filo fra le due torri, le attraversa con l'aiuto di un'asta per tenersi in equilibrio. Proprio come nel 2001, la città si paralizza con il naso all'insù, a fissare le torri.

McCann descrive questo episodio con levità ed emozione, fa salire tutti quei metri di altezza delle torri e ci trasporta in alto, esposti al vento, mentre percorriamo con Petit il cavo teso fra le Twin Towers. Sono pagine di poesia acuta, in cui si trattiene il respiro. E poi però l'autore ci fa ripiombare giù, nei bassifondi più malfamati, nelle disperazione più cupe dei personaggi che, in un modo o nell'altro, assistono o vengono a conoscenza dell'impresa. Il vertiginoso spettacolo del funambolo e la cruda, sotterranea realtà della vita di ognuno, dal cielo più luminoso alle strade più tetre: e quell'impresa, così soave, così folle, così grandiosa e indimenticabile, in qualche modo impone la sua stessa "poesia", anche se per un attimo, a queste vite che si trascinano difficili, costringe i personaggi a uscire da loro, dalla loro quotidianità, li obbliga a confrontarsi con l'infinito, l'impensabile, l'irrespirabile. E' una sfida che il piccolo equilibrista Petit (piccolo anche nel nome) impone a tutti quanti noi avendo sfidato gravità, veritigini, paura e perfino la legge, consacrando le Twin Towers come tempio dell'osservazione collettiva, in una rappresentazione magica e sacrale (quello di Petit non è stato altro che un estremo, totale tributo, in fondo, a quei due grattacieli speculari) che è poi stata così tristemente rovesciata dagli attacchi terroristici del 2001.

Lo stile di McCann, poi, è impeccabile e profondissimo: il punto di vista del narratore è multiplo e di volta in volta si fonde alla perfezione con ciascuno dei protagonisti; inoltre l'incastro temporale delle vicende è costruito con arte e sapienza per dimostrarci come le vite di questi uomini, così come tutte le vite, si incrociano in modi e in tempi inaspettati; la prosa a tratti si fa quasi woolfiana ed è perfettamente calibrata fra ciò che è necessario dire e cosa invece deve rimanere sotteso. Inoltre la mastria di McCann sta proprio nel suo includere tutto l'universo dell'esistenza in un unico tracciato: luoghi, nazionalità, interessi, indoli, professioni le più lontane e differenti vengono accostate, mischiate, assorbite: c'è proprio tutto il mondo qui dentro, il mondo che gira inarrestabile e sempre mutevole (il titolo originale dell'opera, infatti, è Let the Great World Spin, da un verso di Tennyson; inspiegabilmente come al solito la traduzione italiana è diversa, anche se a ricordo mio di un grande bacio in questo libro non v'è praticamente traccia). Alcune parti (l'incidente di un furgoncino, la corsa di Petit degli ultimi metri sul cavo, Jaslyn che porta a morire la madre adottiva in Missouri...) sono descritti con un tale pathos che difficilmente chi legge non può sentirsi avvolto, incluso, partecipe di queste vicende così vere.

In pochi libri ho trovato emozioni così vibranti, quasi sicuramente questo è il libro più bello dell'ultimo anno.



p.s. La magia dell'impresa di Petit può essere rivissuta in tutta la sua follia mozzafiato in un bel film documentario vincitore del Sundance Festival 2008, Man On Wire. Per chi soffre di vertigini l'intensità è doppia.

domenica 5 dicembre 2010

Io è un altro, e lo invidio

Questo video ritrae la prima parte di un workshop dedicato a un genere letterario in via di definizione che è l'autofiction (per semplificare, se non volete vedere un'ora e mezzo di video, delle autobiografie non autobiografiche). Fa parte di una serie di incontri organizzati dalla rivista d'arte contemporanea Kaleidoscope. Alcuni punti della trattazione potrebbero anche sembrare pretenziosi, ma alla fine lui, Vincenzo Latronico, è bravo e piuttosto chiaro, sull'argomento deve aver riflettuto a lungo e poi riunire una ventina o più di persone a parlare di un genere letterario non è proprio una cosa ordinaria, mi pare. Lui a 24 anni fa il traduttore, ha scritto già un romanzo per Bompiani e ne sta preparando un altro (ok, un po' rosico, ma con ammirazione). La seconda parte del workshop è domani sera.

mercoledì 1 dicembre 2010

Liberi di scegliere

Freedom è un romanzo complesso, non solo nella sua struttura formale ma anche da leggere. Ad esempio, pur essendo un libro effettivamente notevole, ha dei punti di una noia e di una cavillosità da far desistere anche i meglio intenzionati. Eppure lascia un segno chiaro soprattutto nel finale, che è scontato ma talmente ben scritto da essere l'unico possibile per un libro così. L'effetto complessivo è quello di una grande cattedrale ben (forse troppo) strutturata, e viene da crederci visto che pare sia costata al suo autore quasi dieci anni d'impegno letterario.

Dopo Le correzioni, Franzen torna a dipingere un grande affresco di una famiglia in cui tutti i componenti sembrano essere a loro modo disfunzionali: la madre ex campionessa ormai devota alla vita casalinga ma non appagata dalle scelte fatte, il padre perfezionista che combatte le sue personali lotte contro i mulini a vento della protezione ambientale e della politica, il figlio che vuole ribellarsi a tutti i costi e quindi sposa l'insignificante vicina di casa e finisce per mettersi nei guai cercando una proprio indipendenza, la figlia troppo apatica per accettare qualsiasi situazione. A una quadro già complesso di suo, l'autore aggiunge tutto quello che si potrebbe aggiungere: i campus universitari, democratici contro repubblicani, l'11 settembre, la salvaguardia dell'ambiente, la speculazione sulla guerra in Iraq, gli ingranaggi macchinosi di fondazioni e politica, la colonizzazione condominiale delle ultime oasi incontaminate di paesaggio americano, le relazioni fra attempati manager ed esotiche assistenti (chissà mai siano i veri amori, quelli), le rockstar che non riescono a sfondare, teoria delle decrescita e sovrappopolamento mondiale, i viaggi clichè in Messico... Insomma ci mette dentro l'America. E non è cosa da poco, visto che la vediamo con gli occhi di chi la vive dal dentro con tutte le sue contraddizioni.

I personaggi che la animano sono in effetti piuttosto irrisolti e in qualche modo alla fine li si odia quasi tutti. Si odiano le loro imperfezioni, le loro scelte infantili, i loro battibecchi senza conclusione e scopo, il loro tentennare, il loro rompere con tutto e tutti. Ma alla fine - è questo il punto di arrivo del romanzo, credo - si riconosce che sono persone libere e, proprio per questo, sbagliano. In qualche modo (come fa la protagonista femminile ripercorrendo in una autobiografia imposta dal suo terapista la propria vita) anche il lettore è indotto a rivalutare la propria esistenza interpretandola come una catena di scelte e di errori. Ma alla base di tutto c'era sempre la libertà, la coscienza di voler definirsi e andare avanti.

"Mistakes were made" dice il memoriale psicanalitico della protagonista: tutti facciamo errori e per questo il fastidio che proviamo per quei personaggi alla fine si trasforma in comprensione, un po' come succede fra loro nell'epilogo. Alla fine vien da pensare che di troppa libertà si possa anche soffrire, ed è forse quello che lo scrittore vuole sottendere facendoci attraversare decenni di storia degli Stati Uniti in cui un eccesso di questa abusata "libertà" ha fatto anche troppi danni (in effetti l'interpretazione politica del testo può essere molto più estesa e pregnante di quanto io non voglia soffermarmi). La Storia con la s maiuscola rimane però quasi un sottofondo, tutto è ridotto alla personale, irrazionale odissea di ognuno. Perché Franzen descrive storie che essendo umane, troppo umane risultano a tratti orribilmente banali. Ma solo perchè in esse in fondo riconosciamo gli errori delle nostre stesse vite.



p.s. Piccole vicende editoriali. In agosto Freedom è uscito negli Usa da Farrar, Strauss e Giroux, in Italia dovrebbe invece arrivare per febbraio 2011 da Einaudi, col titolo Libertà e tradotto da Silvia Pareschi. Sicuramente non farà la stessa fine dell'edizione inglese: la Harper&Collins aveva fatto uscire il libro a inizio ottobre, salvo poi dover ritirare migliaia di copie dato che lo stesso Franzen si era accorto che la versione edita era non l'ultima e definitiva del testo, ma quella precedente. C'è stato chi ha avuto sostituita la copia fallata e altri che se la tengono stretta in vista di possibili affari su ebay.

martedì 30 novembre 2010

110 anni fa, in una triste notte parigina

La società, come l'abbiamo costituita, non avrà mai posto per me, nessun posto da offrirmi; ma la Natura, le cui dolci piogge cadono sugli ingiusti e sui giusti allo stesso modo, avrà anfratti nelle rocce in cui possa nascondermi, e valli segrete nel cui silenzio io possa piangere indisturbato. Lei manterrà le notti pieni di stelle cosicché io possa camminare lontano nell'oscurità senza inciampare, e manderà il vento sui miei passi in modo che nessuno m'insegua per farmi del male: lei mi ripulirà in acque profonde e mi curerà con erbe amare.
Oscar Wilde, De Profundis (traduzione mia).

giovedì 18 novembre 2010

Di "Un karma pesante" volevo scrivere anch'io, ma dopo questo...

Nadia Fusini. Cioè, Nadia Fusini! Voglio dire: NADIA FUSINI. Una recensione spettacolare.

Se la psicoanalisi è una 'talking cure', come spiegò al suo dottore una famosa paziente, la protagonista di Un karma pesante, di Daria Bignardi, (Mondadori), ci persuade che a curare lei è piuttosto la scrittura. In prima persona Eugenia Viola racconta la sua vita di donna adulta in rapide pennellate, da regista cinematografica qual è. In un susseguirsi di flashback avanzano in scena i fantasmi interiori che popolano la sua esistenza, un'esistenza che pur nell'incalzare di risultati da ottenere, di successi da conseguire, non smette di interrogarsi sul senso della vita. La protagonista lo riconosce: vivo "da fanatica, cercando di capire le cose e andare fino in fondo". A Eugenia accadono vere e proprie illuminazioni nel corso del racconto, che con ritmo andante sostenuto procede per aperture esistenziali, affidate ad affermazioni corsare, brusche; cui seguono chiuse altrettanto concitate, dal tono sempre antisentimentale, come se la preoccupazione prima della protagonista fosse tenere a bada il dolore.
Il dolore s'afferma come il vero tema del romanzo. Di dolore si nutre questa impietosa messa a nudo di un'anima attratta dall'azione positiva, realistica - fare, esprimersi, creare, lavorare, risolvere l'energia nell'atto; mentre la medesima energia pericolosamente sprofonda l'anima medesima nel gorgo del dubbio: chi sono io? Questa è la domanda in cui si annida l'angoscia.
E' la domanda che apre la grande meditazione femminile della signora Ramsay nella meravigliosa elegia che Virginia Woolf rivolge
Al Faro, ricordate? A cena, come fosse l'ultima, la protagonista si chiede: che ho fatto io della mia vita? L'interrogativo apre su sentimenti oceanici, che non trovano risposte capaci a fare sponda.
Non a caso "tutto o niente" sta scritto sullo stemma che riassume all'inizio la spinta vitale di Eugenia, una adolescente inquieta, fragile e forte insieme, tenera e ostinata, che ha una sola fame: vivere. Fino all'ultimo respiro. E' per fame che cerca avventure estreme, e soffre e continua a soffrire, finché la sofferenza si confonde con la vita stessa. E non vale come antidoto il successo. E' questo che rende Eugenia diversa dal panorama di creature che sfiora e la sfiorano; lei è una terrorista, manager magari, ma terrorista; lei non cerca come gli altri i piaceri della vita; lei cerca un significato. E il significato apre su qualcosa di estremo - su quell'insieme torbido di dolore e gioia che lei chiama "tutto o niente". Eugenia è ambiziosa: al di là del principio di piacere per lei si gioca qualcosa di più vero, di più tragico, di più vitale. Anche se doloroso.
Poiché questo è un racconto di iniziazione, alla fine quel 'tutto o niente', che in genere vale per i mistici, i pazzi e gli adolescenti, si trasforma. Non vince
Il demone meschino di Sologub, libro che tanto ispira la ragazzina affamata e intraprendente. Vivendo e soffrendo Eugenia scavalca la pietra che all'inizio impaccia il suo cammino e che visivamente nelle pagine d'avvio si confonde con il grosso assorbente che le bascula tra le gambe (è un'immagine inquietante e profonda che 'buca' il tessuto narrativo, che per lo più muove in modo veloce, non cerca la bella prosa, la lingua alta, ma commuove con semplicità). E alla fine esce dal fascino equivoco del 'tutto o niente' e accetta quel 'poco o niente', o quel 'troppo e male' - che è la vita. E lo fa grazie a una capriola, quando stipula, se non la pace, almeno una tregua, con la sua propria natura. E comprende: non c'è io senza dolore. Se non un falso io.
Questo salto le riesce perché è donna? Così pare di capire; perché proprio alla fine lei che si sentiva "un pallone troppo gonfio", pieno soltanto d'aria, e dunque vuoto, scopre che in quel vuoto può fare accomodare altre creature. Quel vuoto è un grembo. In esso si possono concepire altre creature, anche di parole.
Recensione di Nadia Fusini su Repubblica di oggi, 18 novembre 2010


mercoledì 17 novembre 2010

Leggere

L'ho già detto? Le copertine (e le vignette) del New Yorker hanno una capacità di illustrare le stranezze della nostra epoca con il minimo numero di "segni" per il massimo effetto comunicativo. Che poi non serve neanche leggere.


p.s. Qui una recensione su Freedom di Franzen che mi trova un po' d'accordo. Ne riparleremo.

lunedì 15 novembre 2010

Paul Auster sono io

Leggendo fra ieri e oggi il bellissimo Città di vetro di Paul Auster sono rimasto impressionato da come la trama mi ricordasse un racconto che avevo scritto quasi quattro anni fa, con tutt'altra ispirazione. Si chiama Io. (Il titolo del posto non è un superbo paragone fra me e Auster, ma riguarda la storia del romanzo. Ve lo consiglio.)

I rituali della preparazione mattutina quel giorno durarono più del solito. E non perché la barba fosse più ispida degli altri giorni, ma perché Mike passò la maggior parte della sua permanenza in bagno a fissarsi allo specchio. Si passava una mano sulle guance e sul mento con aria perplessa. Era lui. L’immagine che si rifletteva nello specchio era esattamente la sua, ma una bizzarra sensazione d’estraneità lo pervadeva. Osservava i lineamenti duri, le occhiaie sempre più evidenti, la pelle che già mostrava i segni del tempo che passa. Pareva impossibile: non si era mai visto così. Subito cercò di giustificarsi: gli altri giorni non passava così tanto tempo a guardarsi allo specchio. Era forse quello il rischio di una vita come la sua. Ordinaria, si direbbe felice, ma comunque frenetica. Non disporre più del proprio tempo, non avere più qualche minuto per fissarsi in uno specchio.

E non riconoscersi più. Non ritrovare in quell’immagine perfettamente identica il proprio aspetto di sempre senza rendersene conto.

Forse era proprio quello il rischio di una vita vissuta troppo in fretta. La vita corre, lo specchio rimane immobile. Bisognava andare.

Uscì di corsa senza nemmeno fare colazione, salutando bruscamente la moglie e i figli. Si precipitò per il vialetto – era in un ritardo terribile, ma prima di salire in macchina si chinò a raccogliere il giornale che il ragazzo delle consegne aveva ancora una volta abbandonato troppo lontano dalla porta di casa. Con un gesto meccanico lo gettò vicino alla grande finestra che dava sul giardino. Rialzandosi urtò un passante. “Mi scusi”, disse distrattamente guardando di sfuggita l’uomo con cui si era scontrato, ormai distante sulla strada. Montò in macchina con una sensazione di disagio: quell’uomo era praticamente identico a lui, l’impressione era stata immediatamente quella. Strano, però: riconosceva la propria immagine non allo specchio, ma nel volto degli sconosciuti per strada. Non aveva tempo, comunque. Partì senza più pensarci.

***

La giornata era stata pesante. Come al solito. Anzi, da qualche tempo, ogni sforzo in casa o al lavoro sembravano a Mike sempre più pesanti, sempre più insopportabili. Per questo motivo gli pareva sempre meno di vivere la propria vita. Era troppo stanco per farlo. Senza accorgersene stava diventando proprio vecchio, sempre più vecchio. Vecchio dentro. E questo lo atterriva, lo sfigurava.

Nonostante tutto, appena sceso dall’auto, Mike fece un grande respiro e si diresse verso la porta. In fondo l’idea di casa riusciva ancora in qualche modo a riscaldare il suo animo ormai enormemente raffreddato.

Avvicinatosi all’uscio di casa notò con sorpresa il giornale che aveva gettato sotto la finestra, quella stessa mattina. Quando si rimise in posizione eretta dopo averlo raccolto, non poté che fare un balzo indietro, stupefatto. Immediatamente fece cadere il quotidiano di nuovo a terra. Non poteva credere ai suoi occhi. Non poteva credere di osservare dall’altra parte del vetro qualcosa che effettivamente stava avendo luogo. Non poteva credere che a giocare coi suoi figli, nel suo salotto, di fronte alla sua televisione, fosse una persona esattamente identica a lui. Era lui, ma non era lui. Aveva gli stessi abiti, lo stesso taglio di capelli, la stessa barba già cresciuta a poche ore dalla rasatura mattutina. Perfino lo stesso atteggiamento e gli stessi movimenti nei confronti dei figli piccoli. Mike non poteva credere di vedersi dall’altra parte della finestra. Non poteva credere di stare a giocare coi propri figli, pur essendo fuori casa.

D’istinto si diresse verso il campanello d’entrata e lo suonò furiosamente, finché non vide apparire sua moglie nella crescente luce della porta che s’apriva.

“Sarah, chi…”

“Scusi ma lei chi è?” chiese la donna, con la freddezza che Mike riconosceva familiare, “E soprattutto come fa a sapere il mio nome?”

La risposta fu immediata e affannosa: “Sarah! Sono io! Sono Mike! C’è uno dentro che è uguale a me. Chi è? Perché l’hai fatto entrare? Sono io, sono tuo marito. Quello vero.” Non poteva credere di aver detto quelle parole. In realtà non ci credeva nemmeno lui. Era veramente sicuro di essere quello vero, di essere veramente se stesso? L’affanno di farsi riconoscersi era comunque più importante di quelle riflessioni.

“Senta: è tardi! Davvero io non so chi lei sia e il suo scherzo non mi diverte per nulla. Se ne vada o chiamo mio marito,” dicendo ciò Sarah si girò di scatto e con violenza sbattè la porta.

Ma tuo marito sono io, avrebbe voluto urlare Mike. Ma era stanco. Come sempre. E quella situazione era troppo assurda per essere affrontata.

***

Aveva passato la notte a girare in macchina. Guardava i grattacieli, osservava le luci, leggeva qualsiasi insegna e qualsiasi scritta luminosa che invadeva la città. Voleva percepire tutto, farsi travolgere da un flusso immenso di percezioni e sensazioni: tutto pur di non pensare al suo doppio, all’impostore che aveva occupato la sua vita, al clone che gli stava rubando il posto in famiglia, il suo posto nella società.

Dopo aver dormito un paio di ore tormentate, esattamente come ogni mattina si diresse al lavoro. Aveva la barba lunga, gli stessi vestiti del giorno prima. Non era mai capitato. Ma quel giorno aveva una dannata necessità di conferme, di sapere di essere ancora se stesso: i colleghi l’avrebbero riconosciuto, si sarebbero accorti che era lui. Avrebbe ripreso il suo ruolo. E a quel punto i vestiti stropicciati del giorno prima non erano molto rilevanti.

Parcheggiò direttamente di fronte al grande edificio dove faceva l’impiegato. Era l’edificio di un’importante multinazionale, in cui lui era solo un piccolo numero.

Si diresse a lunghi passi verso l’entrata, completamente costruita in cristallo. Attraversò le porte scorrevoli a una velocità molto spedita, talmente spedita da allarmare l’usciere che stava dietro al suo bancone per controllare chi entrava e chi usciva. Di solito Mike non faceva mai caso a quel vecchietto ormai abbondantemente in età da pensione: lavorava lì da più di quindici anni e pensava di non aver più bisogno di presentarsi ad ogni ingresso nell’edificio.

L’usciere, quella volta, però, sembrava parecchio allarmato: “Senta lei, cosa crede di fare? Non può entrare qui. Deve prima presentarsi.”

Mike frugò a grande rapidità nella sua memoria, anche se l’operazione si presentava parecchio difficile con tutti i pensieri che gli passavano per la testa in quel momento. In un tentativo di dimostrare la propria familiarità al luogo e alle persone che vi lavoravano, Mike cercava disperatamente di ricordare il nome dell’usciere, il quale quel giorno non portava la targhetta di riconoscimento.

“Senta John, sia gentile. Lavoro qui da una vita, devo salire al decimo piano. Mi faccia andare: è importante”, disse con una voce adulante.

“Mi faccia il favore. Sono io che lavoro qui da una vita! E le assicuro, caro signore, che conosco perfettamente i volti di chiunque lavori qui dentro. E lei non è fra questi.”

Mentre il vecchio portiere pronunciava quelle parole, Mike sprofondava sempre più nello conforto. Tentò di nuovo, anche se scoraggiato: “La prego, John, mi faccia…”

L’altro l’interruppe, sfoderando una voce profonda e minacciosa che mal s’abbinava col suo fisico invecchiato e gracilino: “Se ne vada, ripeto. Se non ha un appuntamento o un particolare motivo per essere qui, deve andarsene. Se non lo fa di sua spontanea volontà, chiamerò la vigilanza.”

Mike fece l’ultimo disperato tentativo, troppo stremato per combattere anche con quell’uomo: “Lavoro al decimo piano, non porto nemmeno più il cartellino da quanto tempo lavoro qui…”

All’ennesima protesta, il portiere si diresse al suo bancone, prese il telefono e chiamò i vigilanti. Senza nemmeno realizzare cosa stesse succedendo, Mike si vide sollevato di peso da due energumeni in divisa e fu gettato fuori dall’entrata in cristallo.

Mentre ricadeva a terra, Mike sentì la voce del vecchio usciere urlare attraverso la porta che si stava chiudendo automaticamente: “E il mio nome è Jack, comunque.

***

L’oblio. Il più totale oblio. La sua mente si vuotava, ogni pensiero fuggiva via. Solo la disperazione regnava, la più completa disperazione. Nessuno lo riconosceva. Non era più lui, non aveva più l’aspetto di prima. Nessuna identità, nessuna relazione. Niente. Era forse una specie di punizione divina per la piattezza con cui aveva vissuto e viveva la sua vita? Per tutti i rimpianti che aveva accumulato?

Poco importava. Ormai lui non era più nessuno. Nessuno.

***

Stette per più di una settimana a vagare per la strada lungo la quale si trovava la sua casa. O forse ormai non era più sua. Mike continuava a vestire gli stessi abiti di quel fatidico giorno, a non curarsi, a non lavarsi. Mangiava poco, quelle piccole cose che si comprava con i soldi che gli erano rimasti nel portafoglio.

Il portafoglio. Era buffo come si fosse reso conto che, sempre quel fatidico giorno, era uscito di casa col portafoglio ma senza l’agenda in cui teneva documenti, patente e carte di credito. Mike aveva dimenticato tutti gli attestati della sua identità, tutta la sua identità. Aveva con sé solo il portamonete, e quelle monete stavano per terminare. Se un uomo è quello che si porta in tasca, lui era divenuto veramente nessuno. Eppure aveva la tristissima sensazione di esserlo stato da sempre, nessuno.

Molto spesso, nella sua spola continua su quel viale, si sedeva sul marciapiede di fronte all’abitazione in cui stavano ogni giorno i suoi figli, sua moglie. In quella casa scorreva quella che era stata la sua vita e abitava anche quella persona che gli aveva sottratto aspetto e affetti. Ma chi era lui? Chi era quell’uomo diventato la sua copia? Come aveva fatto non solo a diventare uguale a lui, ma anche a rubargli il volto, la riconoscibilità?

Una serie di dubbi si rincorrevano e si sostituivano in continuazione l’un l’altro nella testa di Mike: e nessuno poteva dargli risposta; a chiunque lui si fosse rivolto, nessuno l’avrebbe riconosciuto, nessuno l’avrebbe capito, nessuno l’avrebbe aiutato.

Ma forse la soluzione non era così lontana.

Uno di quelle mattine in cui se ne stava a fissare il luogo che una volta chiamava casa, la porta che aveva attraversato per l’ultima volta molti giorni addietro si aprì. La speranza che ne uscisse sua moglie Sarah, o uno dei figli, s’infranse immediatamente quando riuscì a scorgere il proprio profilo che si avvicinava. L’uomo identico a lui si stava dirigendo proprio nella sua direzione.

Cosa sarebbe successo quando si sarebbero incontrati? Due uomini diversi ma uguali fra loro. Cosa si sarebbero detti?

Fu l’altro a parlare, appena raggiunto il marciapiede opposto: “E’ venuto il momento.”

Mike non capiva, non capiva il senso, il senso di quella situazione, il senso di quella frase. L’altro gli fece cenno di dirigersi verso la “loro” casa.

Appena entrato, sempre seguito di qualche passo dall’altro, Mike scoppiò a piangere. Quante volte aveva dato per scontato tutto quello, quelle stanze, quei mobili, quegli ambienti: non si era mai reso conto. E capì, in quel singolo piccolo momento, tutto quello che non aveva capito fino allora. E l’amore che provava per i suoi cari e per la sua vita finalmente ritornarono a divampare nel suo animo, a rinvigorire ricordi e sensazioni che credeva di aver perduto per sempre.

In quel momento capì anche dove voleva condurlo l’altro, la sua copia. Salì le scale velocemente, sempre sentendo un’altra coppia di passi venire immediatamente dopo i suoi.

Si ritrovò, anzi si ritrovarono, in bagno. Di fronte allo specchio. Quel quotidiano, stranissimo specchio. Mike vedeva il proprio viso segnato dai giorni di sofferenza e d’attesa riflesso nello specchio e immediatamente dietro, spostato di qualche centimetro la faccia dell’altro, della copia: fresca, pulita, rilassata, appena rasata. Finalmente si rese conto. Fissò i propri occhi, e contemporaneamente gli altri occhi. Lo stesso colore, una diversa intensità. Magicamente quella luminosità, però, quella speranza, quell’ardore si stavano trasmettendo anche ai propri occhi. Mike stava riacquisendo quella luce che aveva perso da moltissimo tempo.

D’improvviso l’altro, l’uomo identico a lui fece qualche passo di lato, fino a scomparire completamente dietro a Mike. Era scomparso. In quel bagno ormai era solo. Era solo. Era solo lui. Era lui.

Prese, quasi in trance, il rasoio dall’armadietto sopra il lavandino e iniziò a radersi.


domenica 14 novembre 2010

La musica non è morta, ma c'ha l'artrite

Articolo dell'Economist tradotto su Internazionale di questa settimana (n. 872, anno 18). L'originale integrale è qui.
Negli ultimi dieci anni le vendite di dischi e cd sono crollate. Lo scambio illegale di file musicali e la fine del "ciclo di sostituzione digitale" - ovvero l'acquisto di cd per sostituire dischi e cassette - hanno dato il colpo di grazia al settore. La vendica di musica online non basta a compensare le perdite. (...) Eppure il business della musica è in ottima salute.
Ci sono nuove possibilità di guadagno per artisti e case discografiche. Il mercato non sta morendo, sta cambiando. Il boom più redditizio è quello della musica dal vivo. (...)
La pirateria musicale è un fenomeno generazionale. I sondaggi dimostrano che sono fondamentalmente gli adolescenti e i giovani a scaricare la musica illegalmente. E generalmente preferiscono la musica fatta dai loro coetanei, che racconta esperienze ed emozioni più vicine alle loro. Quindi succede che i giovani rubano ai giovani, mentre i fan di mezza età continuano a comprare i cd di artisti di mezza età. (...) I giovani in cerca di successo che partecipano a show come X Factor di solito si esibiscono con canzoni che hanno almeno vent'anni. Alcuni manager musicali si lamentano già che i migliori artisti dal vivo di oggi non troveranno degni sostituti domani. Insomma è innegabile che lo star system inizi a scricchiolare. Ma questo non significa che non ci saranno artisti famosi e adorati. I musicisti si conquisteranno i fan attraverso nuove strade, come i social network, la tv o semplicemente saltando di concerto in concerto (che in realtà è quello che hanno fatto la maggior parte dei gruppi del novecento). (...)
E chi dubita che il loro successo possa essere duraturo dovrebbe considerare un elemento: nessuna generazione di padri ha mai dato un soldo di fiducia alla musica ascoltata dai figli.

mercoledì 10 novembre 2010

Recinzioni: The Social Network, Howl, Brotherhood

The Social Network (David Fincher, 2010). Dal 12 novembre.

‎"The social network" è un buon film, forse penalizzato dai continui salti temporali e dalle complicazioni legali che di certo non ne facilitano la scorrevolezza, ma compensato da attori giovani e bravi e da dialoghi estremamente brillanti. L'effetto di una pellicola riguardante un fenomeno così gigantesco in cui praticamente tutti siamo dentro (anche in questo momento) lascia a dir poco esterrefatti: soprattutto perché lega le origini di questa straordinaria rete sociale alla impossibilità cronica del protagonista-fondatore Mark Zuckerberg a crearsi delle relazioni interpersonali e a gestirle in maniera coerente (la trama s'incentra sulle cause legali mosse contro di lui, accusato da ex amici di aver rubato loro idee e soldi). E poi si resta stupefatti da questi studenti di Harvard che sono inventori, imprenditori, campioni nello sport, hacker, intraprendenti - forse troppo, e troppo prematuramente - protagonisti del loro tempo. Ma sono anche cinici, determinati, disposti a tutto, con una scala di valori a volte insicura. Ecco, la sensazione alla fine del film è proprio questa: vedendo questi giovani così pieni e sicuri di sé, così di successo eppure così "disumanizzati", si guarda direttamente in faccia la nostra contemporaneità e i rischi che ognuno corre quotidianamente per stare al passo con essa. Tutti proiettati verso un qualche obiettivo, ci lasciamo inevitabilmente indietro qualcosa.


Urlo (Howl, Rob Epstein, Jeffrey Freidman, 2010)

"Howl" è un'opera suggestiva e originale, piena di fascino culturale. In un montaggio di immagini in bianco e nero, a colori e animate si ricostruiscono il processo per oscenità indetto contro il poema "L'urlo" di Allen Ginsberg, straordinario poeta della Beat, e la prima lettura pubblica dello stesso al Six Gallery di San Francisco, evento che segnò l'inizio della San Francisco Renaissance. Oltre a Ginsberg, interpretato dal sempre più sorprendente James Franco, vengono ritratti gli altri protagonisti del movimento beat, con molti dei quali Ginsberg intrecciò infatuazioni e relazioni amorose: Jack Kerouac, Neal Cassidy, Peter Orlovski, Lawrence Ferlinghetti ecc. A parte il processo (riproposizione canonica del conservatorismo oscurantista che cerca di soffocare - inutilmente - l'oscena vitalità artistica), quello che colpisce nel film è la recitazione praticamente integrale del poema: un vibrante e immaginifico affresco e un doveroso omaggio al fermento di una gioventù che cercò di cambiare il mondo con le parole. Inoltre le inquadrature e le animazioni sono create con un rigore praticamente filologico sulle foto e i disegni originali del poeta. Forse a chi non è appassionatissimo di letteratura il film può risultare un po' pesante, del resto alla fine della pellicola la voglia più impellente è quella di andarsi a rileggere Ginsberg.


Fratellanza-Brotherhood (Broderskab, Nicolo Donato, 2009)

Dopo "L'onda", questo è un altro di quei film nordeuropei (stavolta danese) che tornano ad interrogarsi sul nazifascismo e, soprattutto, sulle sue riformulazioni contemporanee, lasciando interdetti su una realtà che tentiamo di nascondere sotto il tappeto e che invece racconta in modo plateale la parte più marcia della nostra società (roba che invece noi in Italia vorremmo quasi quasi cantare "Giovinezza" a Sanremo, per dire). Al centro della vicenda Lars, un giovane ex soldato omosessuale che, frustrato dalla noia e dalla famiglia, entra in un gruppo neonazista (i neonazisti in Danimarca? Sì, i neonazisti in Danimarca) che perseguita gay e immigrati. Nonostante sia intrappolato nella contraddizione del suo ruolo e dalle regole scellerate del gruppo, Lars s'innamora di uno degli esponenti più duri e violenti del movimento, Jim, il quale smette di reprimere se stesso e ricambia l'amore dell'altro. Siccome la violenza genera solo altra violenza, la storia fra i due sarà destinata a tragiche complicazioni. Sullo sfondo una società assente (anche dal film, in cui praticamente esiste solo il gruppo neonazista), un gruppo di giovani che vogliono farsi forti alle spese dei più deboli, un mondo di brutalità omologata in cui solo un amore "diverso" può segnare la via di fuga, di ritorno alla normalità.