lunedì 15 novembre 2010

Paul Auster sono io

Leggendo fra ieri e oggi il bellissimo Città di vetro di Paul Auster sono rimasto impressionato da come la trama mi ricordasse un racconto che avevo scritto quasi quattro anni fa, con tutt'altra ispirazione. Si chiama Io. (Il titolo del posto non è un superbo paragone fra me e Auster, ma riguarda la storia del romanzo. Ve lo consiglio.)

I rituali della preparazione mattutina quel giorno durarono più del solito. E non perché la barba fosse più ispida degli altri giorni, ma perché Mike passò la maggior parte della sua permanenza in bagno a fissarsi allo specchio. Si passava una mano sulle guance e sul mento con aria perplessa. Era lui. L’immagine che si rifletteva nello specchio era esattamente la sua, ma una bizzarra sensazione d’estraneità lo pervadeva. Osservava i lineamenti duri, le occhiaie sempre più evidenti, la pelle che già mostrava i segni del tempo che passa. Pareva impossibile: non si era mai visto così. Subito cercò di giustificarsi: gli altri giorni non passava così tanto tempo a guardarsi allo specchio. Era forse quello il rischio di una vita come la sua. Ordinaria, si direbbe felice, ma comunque frenetica. Non disporre più del proprio tempo, non avere più qualche minuto per fissarsi in uno specchio.

E non riconoscersi più. Non ritrovare in quell’immagine perfettamente identica il proprio aspetto di sempre senza rendersene conto.

Forse era proprio quello il rischio di una vita vissuta troppo in fretta. La vita corre, lo specchio rimane immobile. Bisognava andare.

Uscì di corsa senza nemmeno fare colazione, salutando bruscamente la moglie e i figli. Si precipitò per il vialetto – era in un ritardo terribile, ma prima di salire in macchina si chinò a raccogliere il giornale che il ragazzo delle consegne aveva ancora una volta abbandonato troppo lontano dalla porta di casa. Con un gesto meccanico lo gettò vicino alla grande finestra che dava sul giardino. Rialzandosi urtò un passante. “Mi scusi”, disse distrattamente guardando di sfuggita l’uomo con cui si era scontrato, ormai distante sulla strada. Montò in macchina con una sensazione di disagio: quell’uomo era praticamente identico a lui, l’impressione era stata immediatamente quella. Strano, però: riconosceva la propria immagine non allo specchio, ma nel volto degli sconosciuti per strada. Non aveva tempo, comunque. Partì senza più pensarci.

***

La giornata era stata pesante. Come al solito. Anzi, da qualche tempo, ogni sforzo in casa o al lavoro sembravano a Mike sempre più pesanti, sempre più insopportabili. Per questo motivo gli pareva sempre meno di vivere la propria vita. Era troppo stanco per farlo. Senza accorgersene stava diventando proprio vecchio, sempre più vecchio. Vecchio dentro. E questo lo atterriva, lo sfigurava.

Nonostante tutto, appena sceso dall’auto, Mike fece un grande respiro e si diresse verso la porta. In fondo l’idea di casa riusciva ancora in qualche modo a riscaldare il suo animo ormai enormemente raffreddato.

Avvicinatosi all’uscio di casa notò con sorpresa il giornale che aveva gettato sotto la finestra, quella stessa mattina. Quando si rimise in posizione eretta dopo averlo raccolto, non poté che fare un balzo indietro, stupefatto. Immediatamente fece cadere il quotidiano di nuovo a terra. Non poteva credere ai suoi occhi. Non poteva credere di osservare dall’altra parte del vetro qualcosa che effettivamente stava avendo luogo. Non poteva credere che a giocare coi suoi figli, nel suo salotto, di fronte alla sua televisione, fosse una persona esattamente identica a lui. Era lui, ma non era lui. Aveva gli stessi abiti, lo stesso taglio di capelli, la stessa barba già cresciuta a poche ore dalla rasatura mattutina. Perfino lo stesso atteggiamento e gli stessi movimenti nei confronti dei figli piccoli. Mike non poteva credere di vedersi dall’altra parte della finestra. Non poteva credere di stare a giocare coi propri figli, pur essendo fuori casa.

D’istinto si diresse verso il campanello d’entrata e lo suonò furiosamente, finché non vide apparire sua moglie nella crescente luce della porta che s’apriva.

“Sarah, chi…”

“Scusi ma lei chi è?” chiese la donna, con la freddezza che Mike riconosceva familiare, “E soprattutto come fa a sapere il mio nome?”

La risposta fu immediata e affannosa: “Sarah! Sono io! Sono Mike! C’è uno dentro che è uguale a me. Chi è? Perché l’hai fatto entrare? Sono io, sono tuo marito. Quello vero.” Non poteva credere di aver detto quelle parole. In realtà non ci credeva nemmeno lui. Era veramente sicuro di essere quello vero, di essere veramente se stesso? L’affanno di farsi riconoscersi era comunque più importante di quelle riflessioni.

“Senta: è tardi! Davvero io non so chi lei sia e il suo scherzo non mi diverte per nulla. Se ne vada o chiamo mio marito,” dicendo ciò Sarah si girò di scatto e con violenza sbattè la porta.

Ma tuo marito sono io, avrebbe voluto urlare Mike. Ma era stanco. Come sempre. E quella situazione era troppo assurda per essere affrontata.

***

Aveva passato la notte a girare in macchina. Guardava i grattacieli, osservava le luci, leggeva qualsiasi insegna e qualsiasi scritta luminosa che invadeva la città. Voleva percepire tutto, farsi travolgere da un flusso immenso di percezioni e sensazioni: tutto pur di non pensare al suo doppio, all’impostore che aveva occupato la sua vita, al clone che gli stava rubando il posto in famiglia, il suo posto nella società.

Dopo aver dormito un paio di ore tormentate, esattamente come ogni mattina si diresse al lavoro. Aveva la barba lunga, gli stessi vestiti del giorno prima. Non era mai capitato. Ma quel giorno aveva una dannata necessità di conferme, di sapere di essere ancora se stesso: i colleghi l’avrebbero riconosciuto, si sarebbero accorti che era lui. Avrebbe ripreso il suo ruolo. E a quel punto i vestiti stropicciati del giorno prima non erano molto rilevanti.

Parcheggiò direttamente di fronte al grande edificio dove faceva l’impiegato. Era l’edificio di un’importante multinazionale, in cui lui era solo un piccolo numero.

Si diresse a lunghi passi verso l’entrata, completamente costruita in cristallo. Attraversò le porte scorrevoli a una velocità molto spedita, talmente spedita da allarmare l’usciere che stava dietro al suo bancone per controllare chi entrava e chi usciva. Di solito Mike non faceva mai caso a quel vecchietto ormai abbondantemente in età da pensione: lavorava lì da più di quindici anni e pensava di non aver più bisogno di presentarsi ad ogni ingresso nell’edificio.

L’usciere, quella volta, però, sembrava parecchio allarmato: “Senta lei, cosa crede di fare? Non può entrare qui. Deve prima presentarsi.”

Mike frugò a grande rapidità nella sua memoria, anche se l’operazione si presentava parecchio difficile con tutti i pensieri che gli passavano per la testa in quel momento. In un tentativo di dimostrare la propria familiarità al luogo e alle persone che vi lavoravano, Mike cercava disperatamente di ricordare il nome dell’usciere, il quale quel giorno non portava la targhetta di riconoscimento.

“Senta John, sia gentile. Lavoro qui da una vita, devo salire al decimo piano. Mi faccia andare: è importante”, disse con una voce adulante.

“Mi faccia il favore. Sono io che lavoro qui da una vita! E le assicuro, caro signore, che conosco perfettamente i volti di chiunque lavori qui dentro. E lei non è fra questi.”

Mentre il vecchio portiere pronunciava quelle parole, Mike sprofondava sempre più nello conforto. Tentò di nuovo, anche se scoraggiato: “La prego, John, mi faccia…”

L’altro l’interruppe, sfoderando una voce profonda e minacciosa che mal s’abbinava col suo fisico invecchiato e gracilino: “Se ne vada, ripeto. Se non ha un appuntamento o un particolare motivo per essere qui, deve andarsene. Se non lo fa di sua spontanea volontà, chiamerò la vigilanza.”

Mike fece l’ultimo disperato tentativo, troppo stremato per combattere anche con quell’uomo: “Lavoro al decimo piano, non porto nemmeno più il cartellino da quanto tempo lavoro qui…”

All’ennesima protesta, il portiere si diresse al suo bancone, prese il telefono e chiamò i vigilanti. Senza nemmeno realizzare cosa stesse succedendo, Mike si vide sollevato di peso da due energumeni in divisa e fu gettato fuori dall’entrata in cristallo.

Mentre ricadeva a terra, Mike sentì la voce del vecchio usciere urlare attraverso la porta che si stava chiudendo automaticamente: “E il mio nome è Jack, comunque.

***

L’oblio. Il più totale oblio. La sua mente si vuotava, ogni pensiero fuggiva via. Solo la disperazione regnava, la più completa disperazione. Nessuno lo riconosceva. Non era più lui, non aveva più l’aspetto di prima. Nessuna identità, nessuna relazione. Niente. Era forse una specie di punizione divina per la piattezza con cui aveva vissuto e viveva la sua vita? Per tutti i rimpianti che aveva accumulato?

Poco importava. Ormai lui non era più nessuno. Nessuno.

***

Stette per più di una settimana a vagare per la strada lungo la quale si trovava la sua casa. O forse ormai non era più sua. Mike continuava a vestire gli stessi abiti di quel fatidico giorno, a non curarsi, a non lavarsi. Mangiava poco, quelle piccole cose che si comprava con i soldi che gli erano rimasti nel portafoglio.

Il portafoglio. Era buffo come si fosse reso conto che, sempre quel fatidico giorno, era uscito di casa col portafoglio ma senza l’agenda in cui teneva documenti, patente e carte di credito. Mike aveva dimenticato tutti gli attestati della sua identità, tutta la sua identità. Aveva con sé solo il portamonete, e quelle monete stavano per terminare. Se un uomo è quello che si porta in tasca, lui era divenuto veramente nessuno. Eppure aveva la tristissima sensazione di esserlo stato da sempre, nessuno.

Molto spesso, nella sua spola continua su quel viale, si sedeva sul marciapiede di fronte all’abitazione in cui stavano ogni giorno i suoi figli, sua moglie. In quella casa scorreva quella che era stata la sua vita e abitava anche quella persona che gli aveva sottratto aspetto e affetti. Ma chi era lui? Chi era quell’uomo diventato la sua copia? Come aveva fatto non solo a diventare uguale a lui, ma anche a rubargli il volto, la riconoscibilità?

Una serie di dubbi si rincorrevano e si sostituivano in continuazione l’un l’altro nella testa di Mike: e nessuno poteva dargli risposta; a chiunque lui si fosse rivolto, nessuno l’avrebbe riconosciuto, nessuno l’avrebbe capito, nessuno l’avrebbe aiutato.

Ma forse la soluzione non era così lontana.

Uno di quelle mattine in cui se ne stava a fissare il luogo che una volta chiamava casa, la porta che aveva attraversato per l’ultima volta molti giorni addietro si aprì. La speranza che ne uscisse sua moglie Sarah, o uno dei figli, s’infranse immediatamente quando riuscì a scorgere il proprio profilo che si avvicinava. L’uomo identico a lui si stava dirigendo proprio nella sua direzione.

Cosa sarebbe successo quando si sarebbero incontrati? Due uomini diversi ma uguali fra loro. Cosa si sarebbero detti?

Fu l’altro a parlare, appena raggiunto il marciapiede opposto: “E’ venuto il momento.”

Mike non capiva, non capiva il senso, il senso di quella situazione, il senso di quella frase. L’altro gli fece cenno di dirigersi verso la “loro” casa.

Appena entrato, sempre seguito di qualche passo dall’altro, Mike scoppiò a piangere. Quante volte aveva dato per scontato tutto quello, quelle stanze, quei mobili, quegli ambienti: non si era mai reso conto. E capì, in quel singolo piccolo momento, tutto quello che non aveva capito fino allora. E l’amore che provava per i suoi cari e per la sua vita finalmente ritornarono a divampare nel suo animo, a rinvigorire ricordi e sensazioni che credeva di aver perduto per sempre.

In quel momento capì anche dove voleva condurlo l’altro, la sua copia. Salì le scale velocemente, sempre sentendo un’altra coppia di passi venire immediatamente dopo i suoi.

Si ritrovò, anzi si ritrovarono, in bagno. Di fronte allo specchio. Quel quotidiano, stranissimo specchio. Mike vedeva il proprio viso segnato dai giorni di sofferenza e d’attesa riflesso nello specchio e immediatamente dietro, spostato di qualche centimetro la faccia dell’altro, della copia: fresca, pulita, rilassata, appena rasata. Finalmente si rese conto. Fissò i propri occhi, e contemporaneamente gli altri occhi. Lo stesso colore, una diversa intensità. Magicamente quella luminosità, però, quella speranza, quell’ardore si stavano trasmettendo anche ai propri occhi. Mike stava riacquisendo quella luce che aveva perso da moltissimo tempo.

D’improvviso l’altro, l’uomo identico a lui fece qualche passo di lato, fino a scomparire completamente dietro a Mike. Era scomparso. In quel bagno ormai era solo. Era solo. Era solo lui. Era lui.

Prese, quasi in trance, il rasoio dall’armadietto sopra il lavandino e iniziò a radersi.


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