Michael Cunningham, By Nightfall (4th Floor; in italiano Ai limiti della notte, Bompiani)
Chi conosce Cunningham, e due suoi romanzi in particolare (cioè Carne e sangue e The Hours), ai primi accenni della trama sa già come questa inevitabilmente si svolgerà: Peter Harris, un gallerista d'arte newyorkese di mezz'età, stressato e insoddisfatto (anche se non lo ammette nemmeno a se stesso), ospita con la moglie il fratello di lei, Mizzy, scapestrato e con storie di dipendenza dalla droga, ma bello e intrigante come un'opera d'arte. L'esito potrebbe risultare scontato, eppure Cunningham sorprende con la verità sconcertante con cui fa evolvere la storia: effettivamente fra il frustrato uomo maturo e l'avvenente ragazzo maledetto ci sarà attrazione, ci sarà l'inevitabile e sbagliato (ma per questo ancor più gobile) coinvolgimento, ma questo porterà le loro esistenze su binari ancora più imprevedibili. In effetti Cunningham sembra accorgersi della scontatezza del suo punto di partenza, per questo condisce il romanzo con efficaci digressioni sul mondo del commercio d'arte, ad esempio. Eppure il suo libro è forte e duro e reale proprio perché racconta le ovvietà e i dubbi che ogni nostra vita dimostra; in particolare Cunnigham è magistrale nel raccontare come siamo risolutamente attratti verso le scelte che sappiamo bene essere le più sbagliate, le più dannose, che sono comunque anche quelle che ci fanno sentire più vivi e più padroni di noi stessi, che sappiamo ci portano dove segretamente e fortemente vogliamo andare. L'autore entra nella testa del personaggio principale con rara efficacia, lo denuda e lo fa reincarnare nella più vera, universale realtà. E universale appare anche lo sfondo su cui vengono narrate le storie d'amore al centro del libro: tutte senza un centro, puntellate sulle vite insoddisfatte dei componenti della coppia, avvolte nel costume sfuggente delle bugie, sfuggenti tanto quanto separate procedono le vite che difficilmente si fondono compiutamente in una. Le relazioni in By Nightfall non sono mai come sembrano innanzitutto ai personaggi che le vivono, proprio perché nascono sempre da insofferenze tacite, psicoanalizzate ma poi subito sommerse.
Elemento dominante è anche la notte che tutto vela e disvela. I turbamenti più profondi ma anche le conversazioni con se stessi che sono anche salutari liberazioni avvengono nella notte affacciata su una New York addormentata in cui l'unico essere ancora sveglio sembra Peter, insonne e pieno di rovelli (oltre ovviamente all'uomo che lui vede ogni notte affacciato alla finestra dell'edificio di fronte, solitario compagno di insonnia e dubbi esistenziali).
Dire che la narrazione di Cunnigham è degna di Virginia Woolf (suo esplicito punto di riferimento) è forse troppo, dire che è però fortemente e fortunatamente modernista si avvicina più al vero (ci sono delle pagine di descrizione della neve che cade che richiamano senza dubbio a "I morti" di Joyce). Di sicuro, a parte qualche eccesso di verbosità qua e là, è una prosa che scava dentro, che lascia irrequieti, che fa chiudere il volume pieni di dubbi e di soluzioni irrisolte.
John Keats, Leggiadra stella. Lettere a Fanny Brawne (Archinto)
Il poeta romantico John Keats muore nel 1821, a soli 26 anni, consumato fino all'ultimo dalla tisi ma soprattutto dall'amore troppo intenso e mai compiutamente vissuto per la giovane Fanny Brawne, conosciuta appena due anni prima. L'epistolario ci permette di rivivere queste emozioni, riportano in vita tutto l'amore, la consunzione e perfino tutto il freddo e l'umidità che deve aver patito nel scriverle il poeta, sempre preso a lottare con una vocazione che lo avvicinava all'arte assoluta ma al contempo lo svuotava di vita. Era comunque un uomo in grado di scrivere frasi come: "Il mio amore mi ha reso egoista. Non posso esistere senza di te. Mi dimentico di tutto tranne che di rivederti - la mia vita sembra fermarsi lì - non vedo oltre. Mi hai assorbito."
Queste lettere ci portano indietro a un'epoca di passioni intense di amori epistolari e di vite sofferenti, appese a un filo; soprattutto, a un periodo in cui un giovane ventenne poteva avvicinarsi terribilmente al genio più puro e nonostante questo (o proprio per questo) morire così precocemente.
Paul Auster, Trilogia di New York (Einaudi)
Uno pensa che le invenzioni letterarie possano a un certo punto esaurirsi col passare dei secoli, invece leggendo queste tre opere di Auster (il classico Auster) ci si deve ricredere. Sono tre detective stories sui generis, con protagonista assoluta New York (sarà un caso, ma di tanti libri letti in questo periodo New York è la città più ricorrente) e il suo modo di vivere un po' caotico ma soprattutto noncurante delle identità che la popolano (un amico una volta mi disse: "New York mi fa paura perchè sembra poter continuare a vivere senza le persone che la abitano"). In effetti l'identità, la perdità o la mutevolezza di essa sembrano essere l'ossessione più tipica e ricorrente in Auster (e nell'uomo moderno, forse), che la traduce in pedinamenti, storie discordanti o che si confondono, detective privati che vengono svuotati del loro ruolo venendo assoldati per missioni inutili o si scoprono inseguiti a loro volta. I risultati più eccelsi si trovano sicuramente nel primo Città di vetro, in cui compare come personaggio lo stesso Paul Auster: è una storia ad incastro in cui un detective a cui si richiede di sorvegliare un vecchio finisce per perdere la concezione di se stesso perdendosi nell'ossessione di chi invece l'aveva assoldato. In Fantasmi un altro pedinamento, anche qui reso assurdo dal fatto che chi pedina è a sua volta vittima di una cospirazione; in La stanza chiusa, altra bellissima storia, un uomo prende quasi letteralmente il posto di un vecchio amico di infanzia scomparso, cadendo però nella paranoia che questa sostituzione e il riapparire dell'altro comporta.
Lo stile postmoderno di Auster è assolutamente invidiabile nella costruzione delle trame, così sottili e intricate, però a volte lascia a desiderare a livello di successione degli episodi a volte sbrigativo e di caratterizzazione dei personaggi, che risulta talvolta un po' banale. Si arriva in fondo, però, a quei finali aperti così enigmatici e misteriosi, così metaletterari, e gli si perdona tutto.
Tony Kushner, A Bright Room Called Day (TCG)
Kushner è un affermato drammaturgo americano, praticamente sconosciuto in Italia se non per il passaggio in tv di una stupenda miniserie Hbo tratta dalla sua opera più famosa, Angels in America. In effetti le sue trame sono complicate e cupe, sospese fra un coté misterioso, mistico e quasi magico, e una ossessiva denuncia politica degli avvilimenti del sogno americano, contestualizzata in particolare nell'avvento della politica di stampo reaganiano. E' proprio dal polemico (eccessivo?) paragone fra Reagan e Hitler che prende spunto questo dramma ambientato fra la Germania di Weimar all'alba del governo nazista e l'America di Reagan, appunto, in cui una strana figura femminile denuncia in qualsiasi modo il demoniaco presidente. Le due epoche, come le descrive Kushner, sembrano terribilmente simili, con il "male" dell'indifferenza e dell'odio che si insinuano sottilmente e silenziosamente nella società, in cui alcuni personaggi "illuminati" non possono far altro che osservare lo sfascio di tutto. Ognuno prenderà strade diverse, tutte però - sembra di capire - destinate al fallimento: chi fugge all'estero, chi vive in clandestinità per cercare la rivoluzione, chi resta nella "stanza illuminata" ad aspettare ciò che accade. Tutto è immerso in un'atmosfera asfissiante e oscura, dominata da presenze spiritiche e loschi ambigui figuri, perfino i dialoghi sembrano ridursi all'essenziale che, come sempre in Kushner, è un essenziale pieno di inventiva, ironia e guizzante destrezza linguistica. Alla fine resta un'unica certezza, comunque: con le parole, col teatro o con qualsiasi altro mezzo, l'unica via per combattere il male che avanza è quella di agire, di far sentire la propria voce. Altrimenti siamo destinati ad assistere da spettatori a una tragica storia che continua a ripetere se stessa.
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