La primavera scorsa al Metropolitan Museum of
Arts di New York si è tenuta la mostra Schiaparelli and Prada: Impossible
Conversations, un progetto fra moda e video art, voluto da Miuccia Prada
per rendere omaggio a una storica icona della moda italiana, Elsa Schiaparelli,
designer che fra le due guerre arrivò a rivaleggiare, col suo stile innovativo
influenzato addirittura dai Surrealisti, coi grandi nomi dello stile mondiale,
Coco Chanel in testa.
Schiaparelli non è comunque l'unica grande
donna della moda classica a essere tornata in auge in questi ultimi anni: basti
pensare al caso Vionnet, casa di moda fondata da Madeleine Vionnet nel 1912 e,
nonostante la chiusura nel 1939, rimasta per decenni come punto di riferimento
nel fashion gotha mondiale. A ridare ulteriore lustro al marchio ci ha pensato
Madonna che l'ha scelto come guardaroba ufficiale del suo ultimo film da
regista, W.E.
Ma come spiegare questo ritorno d’interesse,
anche economico (il gruppo Marzotto-Valentino ha rilanciato la casa Vionnet con
sede a Milano, mentre si attende nel 2013 la riapertura della maison
Schiaparelli dopo l'acquisizione da parte di Diego Della Valle), per personaggi
simbolo della moda aulica e d'antan? Forse il motivo di tutto va ricercato in
una parola sola: vintage.
Concetto ripetuto in ogni dove e spesso
abusato, il vintage è uno stile che dimostra come la moda non finisca mai e si
rigeneri in continuazione: tutto ciò che non è più trendy in una determinata
epoca lo può diventare dopo dieci, venti, cinquant’anni. Alcuni – come sempre
quando si tratta di fenomeni socialogico-culturali dai confini poco chiari –
tendono a mettere dei paletti: si possono considerare vintage capi di almeno
una generazione prima (altri dicono: quarant’anni), e che non risalgano a prima
del 1920, sennò lì si sconfina nell’antiquariato classico. Eppure vintage è
anche un modo molto più disinvolto di interpretare le tendenze e lo stile, che
negli ultimi anni si è affermato ai livelli più disparati: vintage è in molti
casi moda fai-da-te, riappropriazione dal basso e rivendicazione della
creazione di un proprio look, spesso accostando abbinamenti insoliti, magari
con pezzi risalenti a epoche o usi diversi. Insomma, vintage è vecchio, ma
anche bello e personale.
Come spesso accede a tanti fenomeni nati
nel mondo della moda, anche il vintage si è diffuso a più livelli. E a
proposito di fenomeni che nascono dal basso come non parlare dell’hipsteria.
Riprendendo anche qui un termine vintage degli anni ’40, gli hipster di oggi sono
soprattutto giovani di media classe e cultura che si trovano a loro agio
nell’ambiente dalla musica ricercata un po’ underground, del cinema indie,
della moda assolutamente inusuale e di recupero, mai mainstream e
possibilmente, appunto, vintage. Se vi capita di incontrare per strada ragazzi
o ragazze con pantaloni ultraskinny, caviglia in vista, cappelli a bombetta,
magliette a righe scollate, bomberini un po’ consumati, occhiali tondi di
tartaruga, tagli con ciuffi importanti, beh, probabilmente avete appena
incrociato un hispter.
Vintage, comunque, ormai è divenuto un
attributo utilizzato per qualsiasi elemento si riferisca al passato, non
esclusivamente nel campo della moda e dell’atteggiamento: così, ad esempio, Rcs
ha pensato bene di chiamare una collana di bestseller classici moderni in
versione tascabile, col risultato principale di rovinare le storiche,
elegantissime copertine di Adelphi. Vintage è anche la tendenza principale
nella musica contemporanea, soprattutto quella dance, in cui negli ultimi anni
si è cercato di recuperare l’appeal tipico di certi pezzi e arrangiamenti anni
’80, talvolta persino ’70 (che, a sentire certi risultati di oggi, gli Abba si
rivolterebbero nelle tombe, fossero morti); o anche di certa musica
anglosassone con tendenze black che cerca di ripescare dalla stagione dorata
del soul (i clamorosi successi di Amy Winehouse e Adele si spiegano, in parte,
anche così). Molto spesso, di recente, anche il design si fa vintage,
riportando sulla scena oggetti di culto (contate i vecchi Casio ai polsi della
gente per strada), facendo andare alle stelle i prezzi su eBay di certi pezzi
d’arredamento del grande design italiano (Castiglioni, Cassina, Zanuso ecc.), richiamando
nelle grafiche, nelle pubblicità e nelle arti plastiche stilemi del passato (da
segnalare, a proposito, la mostra che la Estorick
Collection of Modern Italian Art di Londra dedica al genio artistico di Bruno
Munari, e la storia della grafica italiana dal Futurismo ad oggi proposta dalla
Triennale di Milano fino al febbraio prossimo).
Insomma il vintage sembra essere una
dominante nel panorama culturale di questi tempi. Tempi di decadenza, vien da
pensare. Perché, in effetti, quando una o più generazioni di seguito perdono
quella spinta creativa propria del rinnovamento intellettuale e artistico,
quando un intero mondo è schiacciato dalle impellenze economiche e non vede
altro che insicurezza e crisi, rifugiarsi nel passato risulta quasi sempre
un’arma molto vincente. Certo, però, anche a doppio taglio, perché a forza di
riciclare elementi del passato si rischia di perdere qualsiasi tipo di
originalità. Bisognerebbe fare come i Romantici, che dallo scontro violento fra
classicismo e modernità hanno tratto potente ispirazione. O come Woody Allen,
che in Midnight in Paris (anche lì, più vintage di recuperare la Lost
Generation degli anni ’20 a Parigi, cos’altro?), che ci insegna che la
nostalgia è buona solo quando sa di futuro.
Il vintage è bello, ma solo se ha un
cuore, un’anima propulsiva che gli dà spinta in avanti, solo se è
reinterpretazione e non sterile imitazione del passato.
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