Unreal city: la città dei morti di Eliot da Dante al graphic novel





Questo mio intervento è nato in occasione della giornata di studi conclusiva del corso di Letteratura inglese dei prof. Giovanni Cianci, Caroline Patey e dott. John Young dell'Università di Milano, dal titolo Shakespeare, Rebecca West & T.S. Eliot in words, music, film and pictures.
 
Negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento, le grandi città europee subiscono cambiamenti e innovazioni che ne mutano, per non dire stravolgono, indelebilmente l’aspetto e l’impatto sulla mentalità comune. E più crescono le città, paradossalmente, più l’uomo si fa piccolo, insicuro, svuotato. È soprattutto la letteratura modernista a farsi portavoce di questi nuovi sentimenti, complessi e spesso contraddittori, ma sempre dominati da un sentore di tragedia e ineluttabilità, connessi alla metropoli moderna.
Fra i testimoni più noti di questo sgomento modernista c’è sicuramente il poeta T.S. Eliot e lo è diventato in particolare per il celeberrimo passo in cui, nella prima parte del suo poemetto The Waste Land, “The Burial of the Dead”, ci descrive quella che lui chiama la “unreal city”. Il poema è stato composto fra il 1919 e il 1921, poi pubblicato nel 1922, e dunque ben ci descrive il sentimento di una generazione che non solo deve affrontare i tumultuosi mutamenti della vita urbana portati dalla modernità di masso, ma lo deve fare anche in un momento storico, quello del primo dopoguerra, di grandi sconvolgimenti e insicurezze.

Il passo di Eliot nella sua integrità è il seguente:
Unreal City,  
Under the brown fog of a winter dawn, 
A crowd flowed over London Bridge, so many, 
I had not thought death had undone so many. 
Sighs, short and infrequent, were exhaled, 
And each man fixed his eyes before his feet. 
Flowed up the hill and down King William Street, 
To where Saint Mary Woolnoth kept the hours 
With a dead sound on the final stroke of nine. 
T.S. Eliot, The Waste Land, vv. 60-68

Città irreale,
Sotto la nebbia bruna di un’alba invernale,
Una folla fluiva sul London Bridge, tanti,
Ch’io non avrei creduto che morte tanti n’avessi disfatti.
Sospiri, brevi e radi, venivano esalati,
E ognuno fissava gli occhi davanti ai suoi piedi.
Fluivano su per la collina e giù per King William Street,
Fin dove Saint Mary Woolnoth segnava le ore
Con un suono morto all’ultimo tocco delle nove.
La terra desolata, trad. A. Serpieri, Bur, 1996

Il poeta raffigura la tetra processione degli impiegati londinesi in marcia verso il loro posto di lavoro: allo scoccare delle ore 9 un fiume di persone svuotate della loro personalità si confonde nella foschia e si dirige quasi inconsciamente verso il cuore, oscuro, della produttività cittadina. Quasi fossero dei non-morti, questi personaggi si trascinano lungo il London Bridge in una folla che non ha dimensioni né identità, ma che riesce solo ad evocare immagini cupe di morte e disperazione.
C’è da dire che questo passo eliotiano assume ancora maggiore pregnanza anche grazie ai tagli suggeritigli dall’amico poeta Ezra Pound, che Eliot in esergo al poemetto definisce dantescamente “il mio miglior fabbro”:

Unreal [Terrible] City, [that I have sometimes seen and see],
Under the brown fog of [your] winter dawn, …

Pound avverte come ridondante e banalizzante il secondo aggettivo terrible, come consiglia di togliere anche tutta quella frase relativa che rende l’insieme troppo narrativo; inoltre fa togliere il deittico your, in modo da acuire il senso di spersonalizzazione del passo.
La potenza della descrizione fatta dal poeta è ancora più efficace e destabilizzante in quanto Eliot riesce a condensare in questo frammento un mosaico di riferimenti alla tradizione letteraria del passato che al contempo attualizzano la situazione ma anche la riempiono di risonanze quasi profetiche. È Eliot stesso a commentare questa sua abitudine a fornire indicazioni sulle citazioni da lui disseminate nel testo: “nelle mie note fornivo i rimandi per far sì che il lettore che riconosceva l’allusione sapesse che volevo che la riconoscesse e che non avrebbe capito niente se non l’avesse riconosciuta.” (“Ciò che è Dante per me”,  in Eliot, Studi su Dante, Bompiani, p. 71).
Lo stesso incipit “Unreal city” Eliot lo prende da un poeta che gli fu di grande ispirazione per tutta la sua opera, e in particolare per questo passo, Charles Baudelaire: per Eliot il poeta francese è il primo che veramente fa entrare la potenza espressiva della città in letteratura. Da lui, dice Eliot, “ho imparato, infatti, che compito del poeta era far affiorare la poesia delle risorse inesplorate del non poetico” (“Ciò che è Dante per me”, p. 69). Cosa c’è di più impoetico della città moderna, verrebbe da dire. Ma ecco i versi cui Eliot si ispira, tratti dal componimento de Les fleurs du mal dal titolo “Les Sept Vieillards”:

Fourmilante cité, cité pleine de rèves,
Où le spectre en plein jour raccroche le passant.
Baudelaire, “Les Septs Vieillards”, vv.

Città brulicante, piena di sogni, dove
in pieno giorno gli spettri adescano i passanti!
I fiori del male, trad. G. Raboni, Einaudi, 1992

Anche qui una città brulicante, anche qui una figura fantasmatica che passa in pieno giorno ad adescare i passanti e a gettare sull’ambiente urbano un’ombra di terrore e di morte.
Ma ispirazione massima di Eliot è sicuramente anche Dante: creando un parallelo straordinario, infatti, egli usa le citazioni dantesche per confrontare la Londra impiegatizia degli anni Venti con la città dei morti raffigurata da Dante nella Divina Commedia.

E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.
“Inferno”, canto III, vv. 52-57

Il passo citato è quello che vede Dante alle porte dell’Inferno, nel canto III, incredulo di fronte alla consistenza della massa degli ignavi che rincorrono strenuamente una bandiera in quanto, come in vita non seguirono passioni o ideali, in morte per contrappasso sono stimolati da mosconi e vespe a correre incessantemente.
Lo stesso passo della Commedia era stato illustrato da William Blake, grande poeta e artista della prima metà dell’Ottocento: Blake iniziò a comporre 102 illustrazioni della Divina Commedia nell’autunno 1824, progetto che realizzò solo in parte prima che la morte lo cogliesse nel 1827; questa che vediamo rappresenta la “trista riviera d’Acheronte”, con da una parte gli ignavi che non hanno nemmeno speranza di accedere all’Inferno, e dall’altra “quell’anime, che erano lasse e nude”, in attesa che il traghettatore Caronte li porti all’altra riva del fiume. Anche qui una moltitudine vuota e dolente, nello scenario di una fantasmatica città ante-litteram.
Come detto, Eliot rappresenta gli impiegati londinesi mentre si recano ai loro uffici. Vediamo rappresentati dunque lavoro e spersonalizzazione, città e abbrutimento: è un tema sicuramente già ricorrente nella tradizione letteraria inglese. Pensiamo a Charles Dickens e al celebre passo che descrive la città di Coketown in Hard Times (1854):

It was a town of red brick, or of brick that would have been red if the smoke and ashes had allowed it; but as matters stood, it was a town of unnatural red and black like the painted face of a savage.
(…) It contained several large streets all very like one another, and many small streets still more like one another, inhabited by people equally like one another, who all went in and out at the same hours, with the same sound upon the same pavements, to do the same work, and to whom every day was the same as yesterday and to-morrow, and every year the counterpart of the last and the next.

Charles Dickens, Hard Times, ch. 5, 1854

Era una città di mattoni rossi, o meglio di mattoni che sarebbero stati rossi se il fumo e la cenere lo avessero permesso; ma, così come stavano le cose, era una città di un rosso e nero innaturale come la faccia dipinta di un selvaggio. (…) Aveva molte strade larghe, tutte eguali una all’altra e molte viuzze ancor più simili una all’altra, abitate da persone simili le une alle altre, che uscivano e rientravano tutte alla stessa ora, con lo stesso scalpiccio sugli stessi selciati, per fare lo stesso lavoro, persone per le quali ogni giorno era eguale al giorno precedente e all’indomiani, ogni anno il duplicato dell’anno appena trascorso e dell’anno a venire.
Tempi difficili, trad. B. Tasso, Bur, 1995

L’esteriorità cupa e squallida della città industriale si rispecchia, come si nota dalle ripetizioni insistenti presenti nel brano, sulla popolazione della città stessa: nascosto sotto la fuliggine delle ciminiere, tutto diventa uguale a se stesso, non solo le strade e la case, ma anche le persone, tutte uguali e tutte intente nelle stesse operazioni, inesorabilmente identiche ogni singolo giorno dell’anno, in una ripetizione inesorabile e disumanizzante. Curiosamente, nonostante Dickens fosse molto attento al corredo iconografico delle sue opere (tanto da mandare lettere di critica ai propri illustratori), Hard Times fu uno dei suoi pochi libri, nelle prime edizione, a non uscire illustrato. Però in questa incisione di Gustave Doré, Over London by rail (1973), vediamo ben rappresentata una Londra ottocentesca cupa, parcellizzata e sempre modularmente uguale a se stessa.
La spersonalizzazione degli abitanti cittadini è comunque un topos lungamente percorso da tutta una certa parte della sensibilità artistica europea. Basta spostarsi di poco, in Norvegia, e osservare questo quadro del 1892, a opera di Edvard Munch, Sera sul viale Karl Johann, oggi conservato al Bergen Art Museum.Munch rappresenta in questo modo i passanti in questo quadro che raffigura una tipica passeggiata serale nel corso principale della capitale danese, Oslo. I personaggi altro non sono che involucri di passioni o di angosce, e a passeggiare non è altro che un’orrida processione di spettri dagli occhi sbarrati e dai volti che richiamano maschere scheletriche. Qui non è più raffigurata l’alienazione prodotta dalla catena di montaggio, ma rimane comunque l’immagine di un’umanità in movimento senza meta e senz’anima, inequivocabilmente svuotata dalla vita urbana.
Questa tendenza di rappresentare le non sempre facili conseguenze emotive della città moderna arriva anche ai giorni nostri, applicandosi a nuove forme di espressività che rigenerano le capacità suggestive di questo tema. Possiamo in particolare osservare il caso delle graphic novels, un genere estremamente vitale e creativo a metà fra i fumetto e la narrativa vera e propria, che ha visto nell’ultimo decennio un grande sviluppo e anche una notevole acclamazione critica.
Ad esempio un particolare adattamento della Waste Land è stato fatto dal cartoonist del Guardian Martin Rowson (che ebbe una formazione letteraria al Pembroke College di Cambridge, e un training da illustratore invece autodidatta) nel 1990, che recupera l’accumulo allusivo di citazioni e riferimenti del Modernismo e lo coniuga con lo stile hard-boiled delle detective novels di Raymond Chandler: infatti Rowson sposta lo svolgimento della Waste Land a Los Angeles e la rielabora nella storia di un detective coinvolto in una tipica indagine di misteri e complotti.
Ogni pagina della graphic novel è affollata di immagini, di simboli e di rimandi che moltiplicano quasi all’infinito le potenzialità della transtestualità. E l’autore compie tutto ciò con grande ironia: ad esempio quando deve illustrare il passo di Eliot citato prima, Rowson raffigura sì la folla che si reca nella City, ma lo fa con un wit non indifferente. Per sua stessa ammissione Eliot dichiara che la fiumana di impiegati è “un fenomeno che spesso mi è capitato di osservare”, e in realtà quando era un semplice banchiere di quella fiumana era parte integrante, anche se qui la descrive quasi con distacco e paternalismo elitario. Allora Rowson rovescia la prospettiva e rappresenta in ogni singolo partecipante di quella “crowd” informe le fattezze dello stesso Eliot, che si vede moltiplicato così nella spersonalizzazione degli impiegati.
Dalla città multiforme e tentacolare, in definitiva, non fugge nemmeno Eliot  e non riescono a fuggire nemmeno gli stessi scrittori modernisti che tentarono di denunciare la disumanizzazione dell’ambiente urbano, e che però dall’ambiente urbano stesso ricavano infinita ricchezza di espressività e ispirazione.
E dalla città fantasma non possiamo fuggire nemmeno noi, a quanto pare. Vorrei infatti concludere con un’ultima immagine che è anche un collegamento con l’attualità, in un circolare ritorno alle tematiche della città di cui abbiamo parlato finora. Rowson, come detto, è cartoonist del Guardian e ha pubblicato lo scorso 7 febbraio questa vignetta, che ironizza amaramente sulle difficoltà economiche di questo delicato periodo storico che stiamo vivendo. Rowson qui scava ancora più indietro nella tradizione letteraria e arriva a citare Dickens. Nel fumetto più a lato, che possiamo attribuire al primo ministro inglese Cameron che si rivolge al ministro della cultura Hunt, si fanno i complimenti per la riattualizzazione e la messa in scena dei tempi di Dickens in occasione del bicentenario dello scrittore; solo che la risposta amara è “Ma quale riattualizzazione?”. La vignetta sembra suggerire che quello che non ha potuto fare la rivoluzione industriale, lo sta facendo la recessione finanziaria. Non ci resta che sperare che questi nuovi Hard Times finiscano presto.


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1 commento:

Unknown ha detto...

Grazie della rassegna: una bella pagina, ricca di documentazioni precise, che mi è utile a scuola