venerdì 31 dicembre 2010

Ehi, buon anno

Prendetelo come un regalo per le feste (non richiesto, per altro): è un numero mai uscito di Liberlist, la rubrica che tenevo sul Corriere Vicentino, è del marzo 2008. Indipendentemente da questo, auguri.

Cinque libri che non fareste leggere a vostra nonna

1. David H. Lawrence, L’amante di Lady Chatterley. È stato il libro più scandaloso e censurato dell’Inghilterra vittoriana di inizio ‘900 (quindi è probabile che vostra nonna in effetti l’abbia letto). E dalle conturbanti scene fra l’ingenua signora di campagna e il rude guardacaccia si capisce anche il perché, o forse no, guardando certa tv d'oggi.

2. Irvine Welsh, Trainspotting. Eroina, alcolismo, perversione sessuale, violenza gratuita, paranoia: un viaggio sconvolgente e disturbante nel nichilismo giovanile degli anni ’80. Nella speranza che non siate stati anche voi quel genere di nipoti.

3. Michel Houellebecq, La possibilità di un’isola. Un comico di fine ventesimo secolo annota i fatti della sua disperata vita, che sarà letta e integrata da due cloni suoi discendenti, migliaia di anni dopo. Sul fondo apatia, perversioni, pessimismo e la coscienza di una mancanza esistenziale e di una società fluida, immorale, interrotta. La nostra?

4. Pietrangelo Buttafuoco, L’ultima del diavolo. Se volete che la fede della vostra nonnina vacilli, fate pure. Buttafuoco - nomen omen - non smentisce la sua vocazione a disturbare ma soprattutto provocare con trame imbevute di scontro religioso, eterodossia e satanismo. In questo romanzo appena uscito, protagonista è il cardinale napoletano Taddeo, snob e dissoluto, per alcuni figura più realistica che inventata.

5. Carolina Tutolo, Pornoromantica. Non è la prima blogger a debuttare in letteratura. E lei lo fa con particolarissime lezioni di sesso, senza pudore, con molta ironia e con una disperata fede nel romanticismo.

(Giochino: in questa rubrica avevo barato, vediamo se indovinate quale dei libri in realtà non ho mai letto.)

giovedì 30 dicembre 2010

Il meglio del 2010 (per lei)

Daria Bignardi, sul suo blog sul nuovo sito di Vanity Fair, sceglie i migliori libri del 2010 (Emmaus è del 2009, ma è bello lo stesso.)

E’ il momento delle liste: film dell’anno, libro dell’anno, uomo dell’anno, donna dell’anno. Io mi ricordo sempre solo le ultime cose che ho visto o letto, ma forse il più bel libro di quest’anno è stato L’uomo verticale di Davide Longo che è uscito a gennaio e ancora me lo ricordo, buon segno. Anche La vita oscena di Aldo Nove mi sembra un gran libro, e a me erano piaciuti tanto Emmaus di Alessandro Baricco, Invisibile di Paul Auster e, più di tutti, Homer & Langley di E. L. Doctorow. Però, me ne sono ricordati ben cinque.

venerdì 24 dicembre 2010

5x5x5: il meglio del 2010 (per me)

libri:

1. Colum McCann, Questo bacio vada a tutto il mondo (Rizzoli)

2. Daria Bignardi, Un karma pesante (Mondadori)

3. Michael Cunningham, Ai limiti della notte (Bompiani)

4. Michela Murgia, Accabadora (Einaudi)

5.Bret Easton Ellis, Imperial Bedrooms (Einaudi)




musica:

1. Kylie Minogue, Aphrodite

2. Take That, Progress

3. Scissor Sisters, Night Work

4. Robyn, Body Talk

5. Hurts, Happiness



cinema:

1. Bright Star (Jane Campion)

2. The Social Newtork (David Fischer)

3. A Single Man (Tom Ford)

4. An Education (L. Scherfing)

5. La prima cosa bella (Paolo Virzì)


mercoledì 22 dicembre 2010

La poesia

"Però. Mi interessava la poesia.
Perché potevo leggerla per una pagina e chiudere il libro senza dovermi chiedere come sarebbe andata a finire. Perché era a frammenti, come la mia vita. Perché sapeva raccontarmela in modo aspro, senza la compassione che si dà a chi non sta bene. Aprendone squarci improvvisi.
Perché cercava la verità e non il successo.
Perché la vera poesia è crudele.
Perché la vera poesia fa male."
Da Aldo Nove, La vita oscena, Einaudi, 2010

martedì 21 dicembre 2010

Stuff I've been reading/2

Michael Cunningham, By Nightfall (4th Floor; in italiano Ai limiti della notte, Bompiani)

Chi conosce Cunningham, e due suoi romanzi in particolare (cioè Carne e sangue e The Hours), ai primi accenni della trama sa già come questa inevitabilmente si svolgerà: Peter Harris, un gallerista d'arte newyorkese di mezz'età, stressato e insoddisfatto (anche se non lo ammette nemmeno a se stesso), ospita con la moglie il fratello di lei, Mizzy, scapestrato e con storie di dipendenza dalla droga, ma bello e intrigante come un'opera d'arte. L'esito potrebbe risultare scontato, eppure Cunningham sorprende con la verità sconcertante con cui fa evolvere la storia: effettivamente fra il frustrato uomo maturo e l'avvenente ragazzo maledetto ci sarà attrazione, ci sarà l'inevitabile e sbagliato (ma per questo ancor più gobile) coinvolgimento, ma questo porterà le loro esistenze su binari ancora più imprevedibili. In effetti Cunningham sembra accorgersi della scontatezza del suo punto di partenza, per questo condisce il romanzo con efficaci digressioni sul mondo del commercio d'arte, ad esempio. Eppure il suo libro è forte e duro e reale proprio perché racconta le ovvietà e i dubbi che ogni nostra vita dimostra; in particolare Cunnigham è magistrale nel raccontare come siamo risolutamente attratti verso le scelte che sappiamo bene essere le più sbagliate, le più dannose, che sono comunque anche quelle che ci fanno sentire più vivi e più padroni di noi stessi, che sappiamo ci portano dove segretamente e fortemente vogliamo andare. L'autore entra nella testa del personaggio principale con rara efficacia, lo denuda e lo fa reincarnare nella più vera, universale realtà. E universale appare anche lo sfondo su cui vengono narrate le storie d'amore al centro del libro: tutte senza un centro, puntellate sulle vite insoddisfatte dei componenti della coppia, avvolte nel costume sfuggente delle bugie, sfuggenti tanto quanto separate procedono le vite che difficilmente si fondono compiutamente in una. Le relazioni in By Nightfall non sono mai come sembrano innanzitutto ai personaggi che le vivono, proprio perché nascono sempre da insofferenze tacite, psicoanalizzate ma poi subito sommerse.

Elemento dominante è anche la notte che tutto vela e disvela. I turbamenti più profondi ma anche le conversazioni con se stessi che sono anche salutari liberazioni avvengono nella notte affacciata su una New York addormentata in cui l'unico essere ancora sveglio sembra Peter, insonne e pieno di rovelli (oltre ovviamente all'uomo che lui vede ogni notte affacciato alla finestra dell'edificio di fronte, solitario compagno di insonnia e dubbi esistenziali).

Dire che la narrazione di Cunnigham è degna di Virginia Woolf (suo esplicito punto di riferimento) è forse troppo, dire che è però fortemente e fortunatamente modernista si avvicina più al vero (ci sono delle pagine di descrizione della neve che cade che richiamano senza dubbio a "I morti" di Joyce). Di sicuro, a parte qualche eccesso di verbosità qua e là, è una prosa che scava dentro, che lascia irrequieti, che fa chiudere il volume pieni di dubbi e di soluzioni irrisolte.


John Keats, Leggiadra stella. Lettere a Fanny Brawne (Archinto)

Il poeta romantico John Keats muore nel 1821, a soli 26 anni, consumato fino all'ultimo dalla tisi ma soprattutto dall'amore troppo intenso e mai compiutamente vissuto per la giovane Fanny Brawne, conosciuta appena due anni prima. L'epistolario ci permette di rivivere queste emozioni, riportano in vita tutto l'amore, la consunzione e perfino tutto il freddo e l'umidità che deve aver patito nel scriverle il poeta, sempre preso a lottare con una vocazione che lo avvicinava all'arte assoluta ma al contempo lo svuotava di vita. Era comunque un uomo in grado di scrivere frasi come: "Il mio amore mi ha reso egoista. Non posso esistere senza di te. Mi dimentico di tutto tranne che di rivederti - la mia vita sembra fermarsi lì - non vedo oltre. Mi hai assorbito."

Queste lettere ci portano indietro a un'epoca di passioni intense di amori epistolari e di vite sofferenti, appese a un filo; soprattutto, a un periodo in cui un giovane ventenne poteva avvicinarsi terribilmente al genio più puro e nonostante questo (o proprio per questo) morire così precocemente.


Paul Auster, Trilogia di New York (Einaudi)

Uno pensa che le invenzioni letterarie possano a un certo punto esaurirsi col passare dei secoli, invece leggendo queste tre opere di Auster (il classico Auster) ci si deve ricredere. Sono tre detective stories sui generis, con protagonista assoluta New York (sarà un caso, ma di tanti libri letti in questo periodo New York è la città più ricorrente) e il suo modo di vivere un po' caotico ma soprattutto noncurante delle identità che la popolano (un amico una volta mi disse: "New York mi fa paura perchè sembra poter continuare a vivere senza le persone che la abitano"). In effetti l'identità, la perdità o la mutevolezza di essa sembrano essere l'ossessione più tipica e ricorrente in Auster (e nell'uomo moderno, forse), che la traduce in pedinamenti, storie discordanti o che si confondono, detective privati che vengono svuotati del loro ruolo venendo assoldati per missioni inutili o si scoprono inseguiti a loro volta. I risultati più eccelsi si trovano sicuramente nel primo Città di vetro, in cui compare come personaggio lo stesso Paul Auster: è una storia ad incastro in cui un detective a cui si richiede di sorvegliare un vecchio finisce per perdere la concezione di se stesso perdendosi nell'ossessione di chi invece l'aveva assoldato. In Fantasmi un altro pedinamento, anche qui reso assurdo dal fatto che chi pedina è a sua volta vittima di una cospirazione; in La stanza chiusa, altra bellissima storia, un uomo prende quasi letteralmente il posto di un vecchio amico di infanzia scomparso, cadendo però nella paranoia che questa sostituzione e il riapparire dell'altro comporta.

Lo stile postmoderno di Auster è assolutamente invidiabile nella costruzione delle trame, così sottili e intricate, però a volte lascia a desiderare a livello di successione degli episodi a volte sbrigativo e di caratterizzazione dei personaggi, che risulta talvolta un po' banale. Si arriva in fondo, però, a quei finali aperti così enigmatici e misteriosi, così metaletterari, e gli si perdona tutto.


Tony Kushner, A Bright Room Called Day (TCG)

Kushner è un affermato drammaturgo americano, praticamente sconosciuto in Italia se non per il passaggio in tv di una stupenda miniserie Hbo tratta dalla sua opera più famosa, Angels in America. In effetti le sue trame sono complicate e cupe, sospese fra un coté misterioso, mistico e quasi magico, e una ossessiva denuncia politica degli avvilimenti del sogno americano, contestualizzata in particolare nell'avvento della politica di stampo reaganiano. E' proprio dal polemico (eccessivo?) paragone fra Reagan e Hitler che prende spunto questo dramma ambientato fra la Germania di Weimar all'alba del governo nazista e l'America di Reagan, appunto, in cui una strana figura femminile denuncia in qualsiasi modo il demoniaco presidente. Le due epoche, come le descrive Kushner, sembrano terribilmente simili, con il "male" dell'indifferenza e dell'odio che si insinuano sottilmente e silenziosamente nella società, in cui alcuni personaggi "illuminati" non possono far altro che osservare lo sfascio di tutto. Ognuno prenderà strade diverse, tutte però - sembra di capire - destinate al fallimento: chi fugge all'estero, chi vive in clandestinità per cercare la rivoluzione, chi resta nella "stanza illuminata" ad aspettare ciò che accade. Tutto è immerso in un'atmosfera asfissiante e oscura, dominata da presenze spiritiche e loschi ambigui figuri, perfino i dialoghi sembrano ridursi all'essenziale che, come sempre in Kushner, è un essenziale pieno di inventiva, ironia e guizzante destrezza linguistica. Alla fine resta un'unica certezza, comunque: con le parole, col teatro o con qualsiasi altro mezzo, l'unica via per combattere il male che avanza è quella di agire, di far sentire la propria voce. Altrimenti siamo destinati ad assistere da spettatori a una tragica storia che continua a ripetere se stessa.


domenica 19 dicembre 2010

Work in progress

Libri da leggere, recensire e/o studiare per gennaio. E' uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo.


venerdì 17 dicembre 2010

Il grande mondo che gira

Descrivere un libro come Questo bacio vada a tutto il mondo è piuttosto difficile perché è un romanzo intenso in cui si vede l'intrecciarsi di tante esistenze apparentemente isolate ma che, nel grande flusso inarrestabile della vita, s'intrecciano a volte sfiorandosi, a volte impattando con violenza. La protagonista assoluta del romanzo è sicuramente New York, attraversata da cima a fondo dai condomini chic di Park Avenue fino al più malfamato casermone del Bronx; tutt'attorno un corteo di personaggi, tutti con le proprie sofferenze e con le proprie speranze, tutti in qualche modo alla ricerca di un loro spazio, di un equilibrio: un prete irlandese che si danna l'esistenza per salvare dalla strada delle prostitute e salvare se stesso dall'amore che prova per una donna madre, le stesse prostitute che si raccontano in modo nudo e sincero, il fratello di lui che assiste alla sua e alla altrui autodistruzione una donna di alto ceto che ha perso il figlio in Vietnam ed è ossessionata dal sembrare banale, un giovane ispanico che cerca una dimensione fotografando graffiti in metropolitana, una giovane di buona famiglia che cerca di farsi un'identità nel mondo della sperimentazione artistica. Tutti attraversano vite disparate e disperate, condite di droga, alcool, nevrosi, tutti sperano in un incontro, in un filo che riprenda a definire il loro cammino.

Le metafore dell'equilibrio e del filo non sono casuali. Se nell'ultimo decennio si è più volte raccontato New York attraverso quel tragico e iconico evento che è stato l'11settembre, c'è stato un altro fatto che per anni si è imposto nell'immaginario che descriveva la citta americana, sempre in relazione alle Torre Gemelli: il 7 agosto 1974. un acrobata, Philippe Petit, dopo aver teso un filo fra le due torri, le attraversa con l'aiuto di un'asta per tenersi in equilibrio. Proprio come nel 2001, la città si paralizza con il naso all'insù, a fissare le torri.

McCann descrive questo episodio con levità ed emozione, fa salire tutti quei metri di altezza delle torri e ci trasporta in alto, esposti al vento, mentre percorriamo con Petit il cavo teso fra le Twin Towers. Sono pagine di poesia acuta, in cui si trattiene il respiro. E poi però l'autore ci fa ripiombare giù, nei bassifondi più malfamati, nelle disperazione più cupe dei personaggi che, in un modo o nell'altro, assistono o vengono a conoscenza dell'impresa. Il vertiginoso spettacolo del funambolo e la cruda, sotterranea realtà della vita di ognuno, dal cielo più luminoso alle strade più tetre: e quell'impresa, così soave, così folle, così grandiosa e indimenticabile, in qualche modo impone la sua stessa "poesia", anche se per un attimo, a queste vite che si trascinano difficili, costringe i personaggi a uscire da loro, dalla loro quotidianità, li obbliga a confrontarsi con l'infinito, l'impensabile, l'irrespirabile. E' una sfida che il piccolo equilibrista Petit (piccolo anche nel nome) impone a tutti quanti noi avendo sfidato gravità, veritigini, paura e perfino la legge, consacrando le Twin Towers come tempio dell'osservazione collettiva, in una rappresentazione magica e sacrale (quello di Petit non è stato altro che un estremo, totale tributo, in fondo, a quei due grattacieli speculari) che è poi stata così tristemente rovesciata dagli attacchi terroristici del 2001.

Lo stile di McCann, poi, è impeccabile e profondissimo: il punto di vista del narratore è multiplo e di volta in volta si fonde alla perfezione con ciascuno dei protagonisti; inoltre l'incastro temporale delle vicende è costruito con arte e sapienza per dimostrarci come le vite di questi uomini, così come tutte le vite, si incrociano in modi e in tempi inaspettati; la prosa a tratti si fa quasi woolfiana ed è perfettamente calibrata fra ciò che è necessario dire e cosa invece deve rimanere sotteso. Inoltre la mastria di McCann sta proprio nel suo includere tutto l'universo dell'esistenza in un unico tracciato: luoghi, nazionalità, interessi, indoli, professioni le più lontane e differenti vengono accostate, mischiate, assorbite: c'è proprio tutto il mondo qui dentro, il mondo che gira inarrestabile e sempre mutevole (il titolo originale dell'opera, infatti, è Let the Great World Spin, da un verso di Tennyson; inspiegabilmente come al solito la traduzione italiana è diversa, anche se a ricordo mio di un grande bacio in questo libro non v'è praticamente traccia). Alcune parti (l'incidente di un furgoncino, la corsa di Petit degli ultimi metri sul cavo, Jaslyn che porta a morire la madre adottiva in Missouri...) sono descritti con un tale pathos che difficilmente chi legge non può sentirsi avvolto, incluso, partecipe di queste vicende così vere.

In pochi libri ho trovato emozioni così vibranti, quasi sicuramente questo è il libro più bello dell'ultimo anno.



p.s. La magia dell'impresa di Petit può essere rivissuta in tutta la sua follia mozzafiato in un bel film documentario vincitore del Sundance Festival 2008, Man On Wire. Per chi soffre di vertigini l'intensità è doppia.

domenica 5 dicembre 2010

Io è un altro, e lo invidio

Questo video ritrae la prima parte di un workshop dedicato a un genere letterario in via di definizione che è l'autofiction (per semplificare, se non volete vedere un'ora e mezzo di video, delle autobiografie non autobiografiche). Fa parte di una serie di incontri organizzati dalla rivista d'arte contemporanea Kaleidoscope. Alcuni punti della trattazione potrebbero anche sembrare pretenziosi, ma alla fine lui, Vincenzo Latronico, è bravo e piuttosto chiaro, sull'argomento deve aver riflettuto a lungo e poi riunire una ventina o più di persone a parlare di un genere letterario non è proprio una cosa ordinaria, mi pare. Lui a 24 anni fa il traduttore, ha scritto già un romanzo per Bompiani e ne sta preparando un altro (ok, un po' rosico, ma con ammirazione). La seconda parte del workshop è domani sera.

mercoledì 1 dicembre 2010

Liberi di scegliere

Freedom è un romanzo complesso, non solo nella sua struttura formale ma anche da leggere. Ad esempio, pur essendo un libro effettivamente notevole, ha dei punti di una noia e di una cavillosità da far desistere anche i meglio intenzionati. Eppure lascia un segno chiaro soprattutto nel finale, che è scontato ma talmente ben scritto da essere l'unico possibile per un libro così. L'effetto complessivo è quello di una grande cattedrale ben (forse troppo) strutturata, e viene da crederci visto che pare sia costata al suo autore quasi dieci anni d'impegno letterario.

Dopo Le correzioni, Franzen torna a dipingere un grande affresco di una famiglia in cui tutti i componenti sembrano essere a loro modo disfunzionali: la madre ex campionessa ormai devota alla vita casalinga ma non appagata dalle scelte fatte, il padre perfezionista che combatte le sue personali lotte contro i mulini a vento della protezione ambientale e della politica, il figlio che vuole ribellarsi a tutti i costi e quindi sposa l'insignificante vicina di casa e finisce per mettersi nei guai cercando una proprio indipendenza, la figlia troppo apatica per accettare qualsiasi situazione. A una quadro già complesso di suo, l'autore aggiunge tutto quello che si potrebbe aggiungere: i campus universitari, democratici contro repubblicani, l'11 settembre, la salvaguardia dell'ambiente, la speculazione sulla guerra in Iraq, gli ingranaggi macchinosi di fondazioni e politica, la colonizzazione condominiale delle ultime oasi incontaminate di paesaggio americano, le relazioni fra attempati manager ed esotiche assistenti (chissà mai siano i veri amori, quelli), le rockstar che non riescono a sfondare, teoria delle decrescita e sovrappopolamento mondiale, i viaggi clichè in Messico... Insomma ci mette dentro l'America. E non è cosa da poco, visto che la vediamo con gli occhi di chi la vive dal dentro con tutte le sue contraddizioni.

I personaggi che la animano sono in effetti piuttosto irrisolti e in qualche modo alla fine li si odia quasi tutti. Si odiano le loro imperfezioni, le loro scelte infantili, i loro battibecchi senza conclusione e scopo, il loro tentennare, il loro rompere con tutto e tutti. Ma alla fine - è questo il punto di arrivo del romanzo, credo - si riconosce che sono persone libere e, proprio per questo, sbagliano. In qualche modo (come fa la protagonista femminile ripercorrendo in una autobiografia imposta dal suo terapista la propria vita) anche il lettore è indotto a rivalutare la propria esistenza interpretandola come una catena di scelte e di errori. Ma alla base di tutto c'era sempre la libertà, la coscienza di voler definirsi e andare avanti.

"Mistakes were made" dice il memoriale psicanalitico della protagonista: tutti facciamo errori e per questo il fastidio che proviamo per quei personaggi alla fine si trasforma in comprensione, un po' come succede fra loro nell'epilogo. Alla fine vien da pensare che di troppa libertà si possa anche soffrire, ed è forse quello che lo scrittore vuole sottendere facendoci attraversare decenni di storia degli Stati Uniti in cui un eccesso di questa abusata "libertà" ha fatto anche troppi danni (in effetti l'interpretazione politica del testo può essere molto più estesa e pregnante di quanto io non voglia soffermarmi). La Storia con la s maiuscola rimane però quasi un sottofondo, tutto è ridotto alla personale, irrazionale odissea di ognuno. Perché Franzen descrive storie che essendo umane, troppo umane risultano a tratti orribilmente banali. Ma solo perchè in esse in fondo riconosciamo gli errori delle nostre stesse vite.



p.s. Piccole vicende editoriali. In agosto Freedom è uscito negli Usa da Farrar, Strauss e Giroux, in Italia dovrebbe invece arrivare per febbraio 2011 da Einaudi, col titolo Libertà e tradotto da Silvia Pareschi. Sicuramente non farà la stessa fine dell'edizione inglese: la Harper&Collins aveva fatto uscire il libro a inizio ottobre, salvo poi dover ritirare migliaia di copie dato che lo stesso Franzen si era accorto che la versione edita era non l'ultima e definitiva del testo, ma quella precedente. C'è stato chi ha avuto sostituita la copia fallata e altri che se la tengono stretta in vista di possibili affari su ebay.