giovedì 10 novembre 2011

Moto d'orgoglio

Di questi tempi quel che ci vuole, secondo me, è un moto di orgoglio. Siamo nel baratro, ok. C'è la crisi, ok. Quello là prende (e perde) tempo, ok. E noi?
La cosa più dolorosa di tutta questa situazione di instabilità e terrore del precipizio - finanziario a livello generale, e politico per l'Italia in particolare - è che ci fa traslare la responsabilità altrove: sono i mercati, sono le borse, sono le banche centrali, sono le manovre economiche dei governi. E nessuno può farci nulla nel suo piccolo, se non fare come le formiche di Gino e Michele. Per non parlare del fatto che la maggioranza delle persone quando legge un pezzo sulla situazione attuale in cui compaiono sessantacinque volte le parole 'spread' e 'bund' già non ci capisce più nulla.
La conseguenza un po' naturale è che si stia lì ad aspettare il cadavere che passi sul fiume, con la netta sensazione che non si possa evitare l'assassinio, magari cercando di fare il possibile nel frattempo per non buttarcisi anche noi, nel fiume.
Però se siamo arrivati a questo punto la responsabilità - piccola piccola - deve essere stata anche nostra. Non ci siamo informati a dovere. Non abbiamo votato come avremmo dovuto. Abbiamo lasciato perdere quando altri esprimevano opinioni incomprensibili e o si lasciavano andare a comportamenti che forse avremmo potuto redarguire. Ci siamo salvati il fegato, ma dannati un po' l'anima. Non è questione di essere migliori di altri o dare lezioni (cfr. Un grande paese di Sofri: secondo me dovremmo poi tutti ripartire dalle cose dette in quel libro lì), è semplicemente questione di darsi da fare, essere migliori soprattutto per e con se stessi.
E' quello che dovremmo fare un po' tutti in questo momento. Migliorarci. Essere più bravi. Impegnarci di più. Essere più buoni anche, se volete. Le crisi - dicono gli studiosi - sfociano sempre in periodi di ripresa: beh, nell'attesa cerchiamo di essere più preparati di fronte a quella ripresa, più consapevoli, più liberi.
E' il moto d'orgoglio di cui parlavo prima: non è il "Fate presto" del Sole 24 ore di oggi (messaggio pur da condividere), è il "Facciamo presto e meglio" di tutti quanti sempre.
Non so: leggiamo un giornale in più, facciamoci dare lo scontrino al bar che non ce lo fa mai, decidiamo di dare il 5 per mille alla ricerca quando sarà il momento, non spendiamo solo per placare la nostra tristezza, stiamo a sentire chi sta peggio di noi, cediamo il posto in metropolitana a una vecchietta, non parcheggiamo in seconda fila, non rinunciamo mai a spiegare a un bambino anche le cose più complicate, andiamo nelle botteghe equosolidali, dialoghiamo sempre anche con quelli che la pensano diversamente da noi ma non per convincerli ma per far vedere che pensarla diversamente non è un crimine, ma uno stato di fatto che rende ricchi, non parliamo male dell'Italia, sorridiamo di più per strada. Sono cose inutili dal punto di vista pratico e troppo buoniste per avere senso? Può darsi. Siamo anche buonisti per una buona volta, ma siamolo per essere migliori. L'importante è che non ci sia una resa, ma una determinazione. Si tratta di non diventare aridi, e vecchi. Nelle cose piccole e insignificanti, come in quelle grandi e importanti. Non lasciamo nulla al caso, nulla ad altri.
Così non ci saranno scuse, la prossima volta che le cose andranno male. Siamo noi i protagonisti. E' di noi e dei nostri destini che si gioca in Borsa in questi giorni. Difendiamoci soprattutto da noi stessi, dalla rassegnazione, dall'apatia. Dimostriamo che questa crisi non ci appartiene, non l'abbiamo creata noi e che anche grazie a noi ne usciremo.
Siamo tutti più orgogliosi. Più bravi. Perché ce la faremo.

domenica 6 novembre 2011

La recensione lusinghiera

Si fa leggere in un paio di giorni anche meno il nuovo libro di Alessandro Baricco, Mr Gwyn. L'avevo promessa e quindi questa sarà una recensione lusinghiera, o per lo meno accondiscendente.
Durante la presentazione del romanzo a Milano, Baricco tiene a sottolineare la diversità di quest'opera rispetto alla precedente, Emmaus: se quest'ultimo è stato una successione di scene in bianco e nero, dal processo creativo travagliato e sofferto e dalla scrittura spigolosa e per certi versi disturbante, Mr Gwyn invece è una lunga passeggiata costeggiata di luce, dai passi distesi e sempre uguali. La differenza è notevole, in effetti: qui ritroviamo un Baricco più "solare", più leggero, e per questo anche più compiaciuto di se stesso e della propria scrittura; in pratica si torna a stilismi che ricordano Oceano Mare e Seta, però con una concentrazione narrativa meno intensa e forse con richiami un po' sbiaditi. Tutta le metafore sulla luce, sul ritratto, sul "riportare a casa" sono però Baricco al 100%, in modo quasi consolante.
Le trovate narrative, c'è da riconoscerlo - come quasi sempre con questo autore, sono notevoli: il protagonista, Jasper Gwyn, è uno scrittore affermato che decide di smettere di pubblicare libri per trovare se stesso; allora si mette a fare il copista, il copista di persone, cioè ne fa dei ritratti però con le parole. Da qui evolve una storia che lo porta a incontrare persone dalle più svariate e peculiari caratteristiche, tutte caratterizzate da pezzi di umanità originali e commoventi (ben resi nella scrittura, fra l'altro). Il personaggio dell'artigiano che fabbrica lampadine, ad esempio, è stupendo e ci dà dettagli sulle cose del mondo che mai avremmo immaginato.
Il libro si perde però verso la fine, fra l'altro lasciando indietro il protagonista e non dicendoci nulla di come va a finire la sua ricerca personale, se non per rari cenni (c'è addirittura una specie di colpo di scena che il lettore intuisce quasi subito mentre l'autore ritarda e tiene a spiegarlo dettagliatamente pagine e pagine dopo). Le pagine finali sono fra le più inconcludenti mai lette.
Resta comunque un rivolo di poesia, alla fine di tutto. Non una grande morale, nemmeno la sensazione netta di aver letto una grande storia ("grande" e "storia" in senso classico: con inizio, svolgimento, fine, grandi sensazioni, tinte nitide e soddisfazioni morali dopo aver chiuso il volume); però il gusto di aver intravisto una grande verità raccontata bene (come lampadine che si accendono e poi lentamente si rispengono) - è questo il bello, e anche il limite, di Baricco, di farci assaporare quanto di bello e intenso si possa fare con le parole, con le parole in quanto tali, al di là di trame, generi letterari, criteri critici, sviluppi narrativi ecc. La verità è questa: che nella vita ognuno di noi non è (o non interpreta) un personaggio, ma è una storia, una storia intera con tutti i suoi elementi. Una storia che vale la pena leggere, ma soprattutto scrivere.


p.s. Baricco mi ha fatto notare che nella copertina di Mr Gwyn, nell'impronta digitale formata da una serie di parole, è nascosto l'incipit del racconto di Melville Bartleby the Scrivener: quella storia Baricco la raccontava in una trasmissione impeccabile sui libri che si chiamava Pickwick (dal minuto 35). Insomma, se poi ho messo in piedi una roba che si chiama così è anche "colpa" sua.

giovedì 3 novembre 2011

Il re é pallido

E' uscito Il Re Pallido (Einaudi), lavoro postumo di David Foster Wallace, scrittore americano morto suicida nel 2008. Ne avevo parlato su Cabaret Voltaire dello scorso luglio.


David Foster Wallace si è tolto la vita il 12 settembre 2008. Nel garage in cui si era impiccato, molto probabilmente a causa della feroce depressione che era tornata a tormentarlo, aveva fatto in modo che la moglie trovasse, ben impilate, tutte le centinaia di fogli e manoscritti che avrebbero dovuto costituire la sua nuova creazione letteraria. “The long thing”, la chiamava Wallace, un romanzo mastodontico su cui lavorava dal 1997, anno in cui era stato pubblicato Infinite Jest, il libro che l’aveva consacrato come nuovo talento geniale della letteratura americana.

Quando un artista muore così prematuramente, soprattutto quando sceglie di morire in questo modo, c’è sempre il problema di ciò che lascia indietro, della sua “eredità” incompiuta. La questione è quella di rispettare le volontà dello scrittore, riuscendo però a vincere l’irresistibile curiosità di sapere, di accedere ancora a una parte dell’autore. Come dice Michael Pietsch, curatore dell’ultimo libro: “Chiunque lavorasse con David sa bene che avrebbe impedito al mondo di vedere un’opera non corrispondente ai suoi standard. Ma… David, purtroppo, non è qui per impedirci di leggere, o perdonarci perché vogliamo farlo.”

Nel caso di David Foster Wallace non si può capire fin in fondo quanto lui avesse voluto veder pubblicata l’opera così come l’aveva lasciata prima di morire, incompleta: certo, far ritrovare i manoscritti e i file di computer con annotazioni e bozze di trama è un segnale piuttosto evidente; è anche vero che, durante i lunghi anni di lavorazione, Foster Wallace aveva frequentemente espresso perplessità sull’evoluzione dell’opera: avendo scritto centinaia e centinaia di pagine, parlando coi suoi editor ne riteneva utilizzabili solo poche decine. In una lettera a Jonathan Franzen, poi, dichiarava sconsolato: “Sono stanco di me stesso, mi sembra: stanco dei miei pensieri, associazioni, sintassi, delle varie abitudini verbali che sono passate da esplorazione a tecnica a tic involontario.”

The Pale King, quell’ultimo libro non terminato appena pubblicato in America (in Italia uscirà prossimamente per Einaudi), ruota attorno alle vicende degli uffici esattoriali statunitensi, braccio lungo di un tax system complesso e gigantesco che ha il compito di controllare i contributi dei cittadini (ironicamente di attualità, oggi che Obama deve fronteggiare manovre economiche da trilioni di dollari). Un’attività fatta di contabilità, controlli infiniti di bilanci e documenti, inserimento di cifre in minute colonne: insomma, non esattamente un argomento vivace per un romanzo. Forse l’obiettivo di Foster Wallace era proprio quello di condensare la monotonia e la noia di una tale occupazione – e, per estensione, dell’esistenza – nella forma romanzesca. E, assieme a ciò, un sacco di temi che mettono di fronte l’uomo ai limiti del controllo sulla propria esistenza, in una serie di opposizioni rappresentative della vita odierna: il singolo contro il sistema, l’individuo contro il gruppo, l’essere umano contro la macchina, la fantasia contro la depressione.

Come tipico di Wallace, The Pale King è una moltiplicazione infinita di spunti, sprazzi narrativi, personaggi apparentemente slegati fra loro, false partenze e conclusioni cieche: il risultato finale (o, meglio, quello che per noi è la forma finale) è un accumulo irrelato di indizi e possibilità di racconto. Non c’è una vera trama, se non abbozzata nelle note che l’autore aveva sparso per tutto il suo lavoro. Non c’è la soddisfazione di una grande storia. Eppure le cinquecento e più pagine del libro fanno affluire in continuazione la grande verve narrativa wallaciana, fatta di un’imprescindibile ironia, di un’inventiva irrefrenabile, di un acume linguistico che a volte, data la sua sovrabbondanza, toglie quasi il fiato. E’ un documento che ci testimonia le potenzialità di un autore che ha rinunciato, alla fine, a quelle proprie potenzialità.

Oltre che a una grande opera sulla contabilità (Foster Wallace aveva seguito per anni, in preparazione, dei corsi di ragioneria), The Pale King è anche una grande miniera di temi metanarrativi: già il fatto che il lavoro dell’editor sia stato così evidente (e inevitabilmente invadente) è significativo, in quanto ha dovuto riordinare gli scritti, inserire note e prefazione per cercare di dominare un fiume narrativo inarrestabile. Per di più, Foster Wallace si diverte a inserire nel corso dell’opera suoi interventi diretti, in cui finge di presentarsi come un personaggio fittizio dal nome, appunto, di David Wallace. Come se non bastasse, l’autore si diverte a confondere le acque, giocando sulla veridicità dei fatti narrati: “Mi serve che la leggiate, l’avvertenza, e capiate che quel ‘I personaggi e gli eventi di questi libri sono opera di fantasia’, includono anche le presenti parole dell’autore … quell’avvertenza definisce tutto quello che segue come finzione, anche se io vi sto dicendo qui che tutta questa cosa che racconto non è finta”.

Già con Infinite Jest, David Foster Wallace aveva dimostrato di rappresentare un approccio assolutamente inedito e geniale nei confronti della letteratura, delle potenzialità narrative del genere romanzo: collocandosi sulla strada già segnata di DeLillo, Irving e Pynchon, Foster Wallace aveva però alzato l’asticella, moltiplicando i livelli umoristici e le sottigliezze linguistiche delle sue opere, esplorando i mondi complessi e perversi della paranoia, della dipendenza e della libertà più o meno condizionata, più o meno consapevole. Anche con The Pale King dimostra come la vita possa essere rappresentata nella moltiplicazione esasperata e esasperante delle esperienze, delle emozioni, delle noie e delle ossessioni. Una volta Wallace dichiarò che “la narrativa riguarda ciò che significa essere un fottuto essere umano” (“Fiction’s about what it is to be a fuckin’ human being”). Essere umani non è facile, anzi, a volte può essere un compito proprio spiacevole. Forse, in ultima analisi, Foster Wallace voleva dirci proprio quello. Alla fine di The Pale King non arriveremo a capirlo compiutamente, tanto più che l’autore non ne era nemmeno soddisfatto: non è la fine che avremmo voluto, ma è la fine che Foster Wallace ha voluto per se stesso.