Ci sono opere che si basano sui loro stessi incipit, non avrebbero senso altrimenti. In qualche modo danno l’idea che la creazione originaria della letteratura sia come un parto, un momento che ha la sua massima potenza creativa, un big bang da cui tutto si origina e si evolve.
Me ne sono convinto innamorandomi di Urlo di Allen Ginsberg, che è un’opera fulminante e geniale, ironica e tragica, disperata e sublime. Ginsberg, come molti degli scrittori della Beat, scriveva sotto effetto di droghe varie e sperimentava la tecnica della cosiddetta scrittura automatica, quando cioè si inizia a scrivere di getto e non ci si ferma per pensare o rileggere o mettere le virgole.
Urlo (in originale Howl, ne hanno fatto anche un film con James Franco) ha la sua forza proprio in questo: è un fiume in piena, qualcosa di inarrestabile e quasi indefinibile, posseduto da un sotterraneo ritmo jazz; la lettura lascia allibiti perché sfiora continuamente l’incomprensibilità ed è di una suggestione rara.
Il fatto straordinario è che tutto il poema si fonda, almeno nella sua prima parte, sulle prime due righe a cui si ricollegano a cascata tutte le subordinate che seguono e che costituiscono il flusso incolmabile della poesia. Le due righe sono queste: “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia, morir di fame isteriche e nude”; meglio ancora, in originale: “I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving hysterical naked”: è un incipit che ti si scolpisce dentro, che brucia. Ha già dentro tutto quello che verrà poi: la lucidità, l’oscenità, l’inevitabilità, e poi la follia e la magia.
Difficilmente si ricordano (se non per immagini) i versi che seguono, da quanto sono complessi e onirici e psichedelici, ma quella prima frase è nitida e memorabile. In questo sta la sua forza, la forza di ogni buon inizio.
Urlo è un’esperienza di letteratura all’ennesima potenza, un’immersione che toglie il fiato (provate a recitarlo a voce alta, oppure cercate su YouTube la registrazione originale di quando Allen Ginsberg lo recitò la prima volta alla mitica Six Gallery di San Francisco nel 1955).
Come finisce, invece? Beh, in qualche modo finisce, ma è come se non lo facesse mai.
Incipit&Explicit di questo mese:
Luca Bianchini, Siamo solo amici (Mondadori)
“Nella scala dei piccoli dolori, il trasloco viene al secondo posto in assoluto.
Prima c’è il sospetto di un tradimento. A seguire, tutto il resto.”
*
“Un tonfo strano e familiare proveniva dall’esterno.
Aprì la finestra, e sentì il solito ragazzino che giocava a pallone tutto solo. Gli fece un fischio e scese a parare un rigore.”
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