martedì 13 settembre 2011

Pop goes the world

(apparso su Cabaret Voltaire, aprile 2011)

Cos’è pop

Di tanto in tanto qualche giornale scopre su internet qualche nuova tendenza, per lo più effimera e banalotta, e decide di riempirci le pagine un po’ frou frou chiamate di alleggerimento. Molto spesso ciò che vi finisce dentro è etichettato come cultura popolare, o pop.

Ma cos’è veramente il pop, sempre più pervasiva marca dei nostri tempi? Innanzitutto uno pensa alla musica, ma anche lì basta fare un giro su Wikipedia (tempio assolutamente pop della conoscenza dei giorni nostri) per scoprire che la definizione non è univoca: se prima indicava tutta la musica opposta a quella classica, poi finisce per distinguere le canzoni leggere da quelle più colte, e infine arriva a far parte del binomio pop/rock (ma anche qui: cos’è il rock?).

C’è poi la pop art, grande invenzione dei fantastici anni ’50, dai notevoli prodotti finali ma che oramai è diventata un alibi per chi di arte non sa un’acca ma comunque vuole fare la posa (“Sai, a me piace molto la pop art”). Lì il concetto era quello di prendere elementi iconici di una cultura sempre più commerciale e massificata (dive del cinema, banane, cartelloni pubblicitari, fumetti…) e stampigliargli un po’ dovunque in collage e pastiche. Colori accesi e fluo, disordine formale, eccesso, stupore: già qui potremmo avvicinarci a qualche aspetto esteriore del concetto di pop. Ma non è abbastanza.

Perché poi c’è questa benedetta pop culture (l’hanno inventata gli inglesi, o forse Mtv), ed è praticamente la cultura diffusa e accessibile a tutti o, meglio, la cultura potremmo dire “percepita”, ciò di cui si parla in giro. Sono i fatti notevoli, i grandi eventi ma anche le sciocchezze mediatiche, il gossip, le storie rosa e nere delle celebrities o delle persone involontariamente diventate tali (dicono che ci siano delle magliette con Yara Gambirasio sopra, per dire). E’ un grande calderone in cui finisce dentro tutto, dall’alto al basso, dal serio al faceto, dal colto al burlesco. Federico Moccia è pop. Ma anche Saviano (leggete Popstar della cultura di Alessandro Trocino). La Pausini è pop, ma anche Vasco Rossi. Stare dalla parte dei rivoltosi arabi è pop, anche non volere più il nucleare dopo Fukushima lo è.

Gaga pop

Ma se c’è qualcosa che di questi tempi è assolutamente pop quella è Lady Gaga. Lei il pop ce l’ha nelle vene, sembra stata creata apposta per far diventare ogni sua azione un pittoresco evento pop. Si veste di carne, esce da un uovo, mangia crocifissi, indossa Alexander McQueen e Thierry Mugler, si fa gli zigomi finti, s’imbratta di sangue, dà vita a una nuova razza aliena. E’ un fenomeno talmente baraccone da incarnare alla perfezione i nostri tempi altrettanto baracconeschi: tutto è spettacolo, estetizzazione, esteriorità e cattura dell’attenzione di massa. Viviamo in un mondo in cui si è e si appare, azioni oramai indissolubilmente (e neanche poi tanto deprecabilmente) legate.

Il fatto è che di Lady Gaga, nel bene o nel male (ma più nel bene, dai) ne parlano tutti: tutti hanno qualcosa in comune, nel conoscerla (anche mio nonno di ottant’anni). E lei non è solo fuffa: la sua ultima canzone, Born this way, è un inno antemico all’accettazione di qualunque identità sessuale, religiosa, etnica. Alla fine non c’è concetto più pop di questo: accettare, essere in contatto con gli altri e i diversi, mettersi in relazione.

Non a caso un altro simbolo pop di questo inizio secolo non è forse Facebook? Diventare amici su Facebook è il gesto più popolare che si possa fare: mantenere i contatti, spiare la vita altrui, condividere contenuti e informazioni.

Tutto è pop

Alla fine nessuno potrà dirci esattamente cosa è pop e cosa non lo è. Forse, come tutte le etichette, è un marchio creato per dire tutto e niente, per mettere assieme qualcosa che assieme non potrebbe mai starci.

Eppure sentiamo da più parti dire che questo è un mondo assolutamente pop: la commercializzazione arrivata dovunque, la possibilità per chiunque di accedere teoricamente a qualsiasi cosa (soprattutto a qualsiasi conoscenza, Wikipedia – appunto – docet). Spariscono le élite culturali, i canoni estetici, le masse informi, tutti hanno l’iphone, tutti guardano i tg e i reality show. Scompare l’elitismo e scompare anche la rabbia di non essere in alto. C’è uniformazione, certo, e livellamento e un generale accontentarsi di un livello medio di quasi tutto. Però c’è anche molta più condivisione, scambio, più melting pot e più ibridazione: come sono pop i barbari della mutazione culturale (unica possibile salvezza futura, in un futuro in cui cultura non ce n’è), soprattutto quando ce li spiega Baricco!

Siamo pop, non vergogniamocene. Magari possiamo anche tirarci fuori qualcosa di buono.


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