Già negli anni Dieci del Novecento il romanzo non si sentiva
tanto bene: il modernismo aveva ben pensato di tagliuzzarlo, frammentarlo,
moltiplicarlo, sperimentarlo, e molto spesso non concluderlo. Ma lui era lì, un
po’ acciaccato ma che si difendeva, aveva ormai vinto la sua centenaria
battaglia con la sorellastra, la poesia, che avrebbe prodotto ancora qualche
slancio di orgoglio e poi si sarebbe definitivamente arresa.
Poi sono passati un po’ di anni, è venuta la guerra, il
postmodernismo (ma oggi è finito anche quello, dicono), il Sessantotto, quei
mattacchioni dei decostruzionisti. In poco tempo si decise che: erano morte le
certezze. Era morta la verità. Era morto anche l’autore. Praticamente il romanzo
ha pensato bene di mettersi in coma.
E guardandosi bene attorno, oggi, vien da dire che molto
probabilmente, nel frattempo è passato a miglior vita. Pensateci bene: pensate
all’ultimo bel romanzo che avete letto di recente. E quando dico romanzo, voglio
dire romanzo, un po’ all’ottocentesca: grande intreccio, personaggi profondi e
in evoluzione, strutturazione complessa di spazio e tempo ecc. Per carità, non
vuol mica dire che tutti i libri devono assomigliare ai Promessi sposi, a Tempi
difficili, a Il conte di Montecristo
per essere romanzi, anzi. Però quella dimensione romanzesca lì, della struttura
ampia, del grande respiro, è andata perduta.
Un po’ è stato anche per l’avvento della letteratura di
genere (Trivialliteratur, dicono
quelli che se la tirano sapendo il tedesco): i gialli hanno un successione
prestabilita e prevedibile; i romanzi rosa sono talmente intorcolati e
inverosimili da dimenticarsi a volte della coerenza dell’intreccio; i thriller
e i noir possono limitarsi a seguire il modello di James Bond; la letteratura
comica non ha bisogno nemmeno di fare i conti con le convenzioni letterarie.
Ma allora cosa resta? In realtà qualche tentativo di romanzo
in quanto tale si continua a fare: la situazione, in Italia ad esempio, mostra
che questa struttura fluida di racconto delle storie e della vita si è adattata
ancora una volta, mutando proteicamente in una forma ancora nuova. Veloce e
baluginante è la realtà, veloce e baluginante sono i romanzi: storie essenziali
e suggestive, capitoli brevi e brevissimi, molte sospensioni e ellissi, molti
dialoghi (o pochissimi, ma senza vie di mezzo), una narrazione che procede per
immagini più che per descrizioni e relazioni di fatti ecc. Diciamo tutto come
in Baricco.
Anche una delle opere più belle dell’anno scorso, La vita accanto di Mariapia Veladiano
rispetta questo nuova modalità romanzesca: lì sono le suggestioni, gli odori
perfino, le immagini pitturate con maestria a dare il senso di una vera
letteratura.
Quest’anno si è parlato molto de Il bambino indaco di Marco Franzoso: un’altra storia avvincente e
di grande impatto (quasi violento) sul lettore è trattata per flash, più per
cose ed emozioni suggerite col non detto che per il detto. Alla fine è un libro
interessante e anche insolito, però si rimane come in attesa di un’apertura, di
qualcosa di più grande e imponente e velato.
Un tentativo di rappel à l’ordre l’aveva provato, sempre
l’anno scorso, Alessandro Mari con Troppa
umana speranza: però lì l’ambientazione ottocentesca, l’impalcatura
obsoleta da romanzo storico e alcuni problemi linguistici (se n’è accorto anche
qualche storico della lingua), avevano minato fortemente il risultato.
Gli unici che forse fanno ancora romanzi nel senso profondo
del termine sono gli americani, come avrà notato chi ha letto l’ultimo Franzen
o l’ultimo Eugenides. Ma quelli nei libri ci mettono dentro interi universi,
l’intera America quasi, e quindi ancora una volta la definizione di romanzo sta
stretta.
In realtà bisognerebbe anche rassegnarsi: il romanzo come lo
conoscevamo, per la sua stessa natura di essere un genere non codificato
rigidamente, ha subito evoluzioni tali da modificare la sua stessa natura. Ora
siamo di fronte a nuove forme di espressione narrativa, e forse anche ad una
fase in cui interrogarsi sull’etichetta da dare ai libri ha un senso solo
relativo. Meglio interrogarsi su cosa sia buona letteratura, e basta.
Piuttosto sarebbe interessante vedere come anche in Italia
stia trovando una vitalità nuova la forma del racconto, qui sempre bistrattata.
Però poi c’è sempre qualche critico letterario su un grande giornale che
paragona l’ultima fatica di Ligabue a Raymond Carver, e allora lì ti metti a
sperare che non sia solo il romanzo l’unico ad andare incontro a una fine
indecorosa.
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