mercoledì 16 maggio 2012

Quello che ho visto

Ho rivisto, in fretta e su internet, le prime due puntate di Quello che (non) ho, programma-evento di Fazio e Saviano su La7, la cui ultima parte va in onda stasera. Volevo scriverne una cosa lunga ma poi mi annoiavo da solo, quindi dirò un paio di cose brevi.
Innanzitutto che Quello che (non) ho è fondamentalmente un programma nato vecchio. Nel senso che non solo è praticamente la riproposizione di Vieni via con me, fatto dalla stessa coppia l'anno scorso su Raitre, ma è anche il trasferimento del "clan" di Fazio (Littizetto, Gramellini, Paolo Rossi, perfino il regista Forzano) da Che tempo che fa a La7. Ma non è detto che essere vecchio sia necessariamente un difetto: anzi, questo tipo di programma dallo stampo teatrale (anche questo elemento di non novità) gli permette di essere spesso poetico, lento e ragionato. Però più che della qualità - pur elevata - del programma in sé, ci racconta della stanchezza e della crisi del sistema televisivo italiano in generale.
D'altro canto è veramente un programma che si basa sull'eccellenza, e di ospiti che rappresentano l'eccellenza si nutre: da Favino a Erri de Luca, da Pupi Avati a Vinicio Capossela, da Elio Germano a Elisa, da Guccini a Ettore Scola. Senza considerare poi che è un programma che si basa sulle parole, che le parole le spiega e le rispetta, che ragiona su di esse e con esse. E momenti di così alta televisione si vedono raramente in giro, eppure l'impressione generale è anche del tipo "guardate che bella famiglia siamo, guardate quanto siamo bravi, quanti amici interessanti e talentuosi abbiamo, guardate come vi elargiamo cultura e poesia". È solo un'impressione, appunto, ma la sindrome da torre d'avorio è dietro l'angolo. Noi siamo spettatori, e quello rimaniamo, anche con una leggera sensazione di impotenza addosso. Quasi ci sia più esposizione che costruzione.
Infine mi ha colpito molto leggere i commenti su Twitter lunedì sera, che sostanzialmente storcevano il naso per l'esordio: Twitter è così, è un grande calderone di opinioni, che sono però - coi giusti following - un calderone selezionato e attento, molto spesso spietato e mai compiacente. Sostanzialmente i tweet stroncavano Quello che (non) ho, soprattutto riguardo alla figura di Saviano, e si sa quanto sia stato difficile finora togliersi dal coro di lodi che ricoprivano lo scrittore. Il fatto è che Fazio e Saviano, e soprattutto Saviano appunto, sono allo stesso tempo il pregio e valore aggiunto del programma (non ascolteremmo mai una sequela di monologhi se non ci fossero loro a garantirci un imprimatur di qualità e coerenza), ma anche la pesantezza iconica e ingrombrante dello stesso. Saviano, da più parti definito ormai una "rockstar" con tanto di fan esultanti al seguito, è imprigionato, oltre che dalla scorta, anche dalla sua figura di oppositore alla mafia, di oratore impegnato, quando invece lui stesso - e il programma qui lo dimostra - vorrebbe togliersi questa corazza di dosso e darsi alla leggerezza. Perché è un programma fondamentalmente chic, Quello che (non) ho, anche se avrebbe velleità e potenzialità pop. Manca quasi una medietà calviniana, nel saper coniugare pesantezza e leggerezza, e questo si avverte. 
Ma Quello che (non) ho è comunque una rarità preziosa, una pietra scheggiata ma inestimabile di questi tempi. E giustamente chi possiede questa pietra ne fa sfoggio e concede agli altri di vederla per un po'.


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