domenica 30 gennaio 2011
Il discorso del re
Il tono del film è poi delicato, essenziale lento al punto giusto. Colin Firth è magnifico nell'interpretare il balbuziente Giorgio VI, a mostrare le fragilità di un uomo messo di fronte a responsabilità incommensurabili, ma anche alla possibilità di riscatto di una vita passata nell'ombra e nell'insicurezza; convincentissimo quando mostra la difficoltà essenzialmente fisica del re di pronunciare le parole, quando recita questo inceppo con gli occhi, con la bocca tremante, con il viso paonazzo, con la gola bloccata. Geoffrey Rush, invece, è perfetto nella parte del tagliente e ficcante logopedista australiano, anche lui con le sue insicurezze e i suoi insuccessi.
La ricostruzione delle vicende della famiglia reale (anche allora densa di scandali, come il rapporto non tollerato fra Edoardo VIII e la divorziata americana Wallis Simpson, per cui sarà poi costretto ad abdicare) non è sfarzosa o di maniera, si concede invece ad aspetti di una qualche sincera intimità (la regina Vittoria Maria che non riesce ad abbracciare il figlio Edoardo dopo la morte di Giorgio V, ad esempio). Nonostante siano poi gli anni che si affacciano al dramma della seconda guerra mondiale (e alcuni hanno avuto da ridere sull'esattezza storica di alcuni tratti del film: sembra che anche Giorgio VI, ad esempio, non fosse poi così indifferente al fascino di Hitler), il film si percorre spesso con il sorriso e, alla fine, si vive come una distensione, una vittoria sulla difficoltà e sulla paura. La vittoria di uomo che forse è però interessante solo perché quell'uomo alla fine è diventato re.
giovedì 20 gennaio 2011
Morte! Della! Letteratura!
Si sa che l'attenzione dell'Italia è attualmente risucchiata in altre faccende più hot, ma il fatto in questione rievoca parole sconcertanti: censura, rogo dei libri, crimini intellettuali ecc. Vero è che in ogni tempo di crisi, prendersela con gli intellettuali è tecnica assodata. Chissà cosa ne direbbe Voltaire. Intanto lo seguono distesamente sul web Wu Ming e Loredana Lipperini (entrambi nell'elenco di autori al bando; qui l'elenco completo).
(p.s. Perdonate: non so che m'è preso con 'sta storia della punteggiatura. Ripetitiva, eh? Domani smetto.)
Morte... Della... Letteratura...
Well, now we know why the author of this much gossiped about, heavily marketed new book wanted to remain anonymous: “O: A Presidential Novel” is a thoroughly lackadaisical performance — trite, implausible and decidedly unfunny.
Morte? Della? Letteratura?
"Le tue emozioni sono pure? I tuoi nervi flessibili? Che rapporto hai con le patate? Costantinopoli dovrebbe chiamarsi ancora così? Un cavallo senza nome ti rende più o meno nervoso di uno che il nome ce l’ha? Secondo te, i bambini hanno un buon odore? Se li avessi davanti a te in questo momento, mangeresti salatini a forma di animale? Potresti stenderti sul marciapiede e riposarti un po’? Volevi bene al padre e alla madre, e i Salmi ti sono di conforto? Se finisci all’ultimo posto in tutte le categorie, la cosa ti secca abbastanza da spingerti a risalire? Ti suonano mai alla porta? Hai qualcosa sul gozzo? Un novello Mendeleev ti potrebbe incasellare con precisione in una tavola periodica delle identità, oppure ti ritroveresti un po’ in tutti gli elementi? Quante flessioni consecutive riesci a fare?"
Morte. Della. Letteratura.
"L'esercitarsi consueto del contraddittorio letterario non più che ai margini del fatto poetico, negli ambulacri degli interessi di gruppo, e già il suo stesso risolversi nelle misure muscolari della polemica sembrano così sufficienti motivi d'astensione che il bisogno di postillare pubblicamente la quasi-eversione delle Occasioni ("Nuova Antologia", 1° aprile 1940) che Alfredo Gargiulo ha inteso contrapporre al celebre avvallo dato a Ossi di seppia, suona già come il migliore degli omaggi resi al critico. Al critico, intendiamo, e non al suo nome, poichè non è qui in gioco una fiduciaria riconoscenza verso il sosternitore veterano dei valori nuovi e il fascino ascetico della sua grammatica ignuda e articolatissima, ma proprio la vitalità del suo contributo attuale a un autore, e alla poesia: né varrebbe la pena d'intervenire, in liena di principio, se nell'analisi, quanto più concreta e coraggiosamente esemplificata sui testi, non fossero impegnati valori molto generali. Non vorremmo poi che si sospettasse, nell'intervento d'un contraddittore, una risposta ab homine: in relazione, insomma, all'eccezione universale d'incompentenza (tolo un solo nome) che la chiusa del saggio solleva contro i critici delle Occasioni, quantitativamente numerosi."
Da Gianfranco Contini, "Di Gargiulo su Montale", Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Einaudi, 1974/2002, p. 49 [è un saggio su Montale ma il nome di questi appare solo dopo una pagina e mezza.]
lunedì 17 gennaio 2011
Shortbus
Finalmente ho visto Shortbus. Dico finalmente non perché ci tenessi particolarmente, ma quando il film venne presentato a Cannes nel 2006 fece molto scalpore e se ne parlò parecchio, ma per me era ancora una specie di tabù concedermi di vedere un film del genere e quindi son passati gli anni senza che più ricapitasse l'occasione. Ora che è capitata, mi son tolto la curiosità e, in qualche modo, non son rimasto deluso. Neppure entusiasta, se è per quello.
La pellicola racconta le vicende intrecciate di un gruppo di persone che frequenta il molto underground e molto licenzioso locale newyorkese Shortbus, dove dire che si fa sesso libero è un eufemismo. In effetti tutti i protagonisti hanno problemi legati alla sfera sessuale (dalla terapista di coppia preorgasmica al ragazzo un tempo escort che ora, per sfuggire a un'opprimente depressione, cerca di ampliare le esperienze sessuali sue e del suo compagno, fino alla dominatrix anaffettiva, ...), il tutto però come ricoperto di una profondità esistenziale, quasi che risolvere questi problemi di sesso significhi anche scavare nel profondo di questi individui e in qualche modo determinare in modo differente la loro vita. Non a caso il momento culminante di tutto il film (un orgasmo, letteralmente) assume una dimensione dai tratti poetici.
Certo, non si può nasconderlo, certe scene farebbero impallidire il più hardcore dei film porno (un'autofellatio, per dirne una): però alla fine ci sono un sacco di film che raccontano il sesso senza farlo vedere, o facendolo apparire ridicolo o schematico, qui invece di sesso si parla ma anche si fa vedere, senza preclusioni e con un'ironia difficile da trovare altrove. Il regista John Cameron Mitchell ha il suo bel dire, comunque, di aver voluto "de-erotizzare" tali scene distinguendole così dalla pura e semplice pornografia, ma il passo fra le due cose è men che breve.
Quel che resta di Shortbus è sicuramente una sperimentazione cinematografica, difficile commercialmente e ancor più discutibile dal punto di vista artistico (però merita la ricostruzione aerea e tridimensionale di New York che serve a legare le scene, ad esempio). Diciamo un film per chi vuol vedere fino a che punto si possa spingere la settima arte e per chi non si scandalizza facilmente, ecco, . Che, poi, chi si scandalizza più al giorno d'oggi?
(John Cameron Mitchell, dopo, sembra aver trovato la retta via: è il regista di Rabbit Hole, nuovo film con Nicole Kidman - da lei anche prodotto - e Aaron Eackhart, nominato ai Golden Globe.)
venerdì 14 gennaio 2011
Storytelling
mercoledì 12 gennaio 2011
Quidopo
Dopo Changelin, Gran Torino e Invictus, capolavori di destrezza dalle trame avvincenti e pensose (l'ultimo già un po' meno, in effetti), il mio sesto senso di ragno era piuttosto diffidente al nuovo film di Clin Eastwood, così, a prescindere. Ma giuro che Hereafter volevo proprio farmelo piacere, anche perché chi me ne aveva parlato bene aveva usato parole delicate e sapienti. Eppure...
Passati i primi dieci minuti sul disastro dello tsunami che sembravnoa un film Pixar venuto male (cioè il pathos era notevole, ma con effetti speciali ingombranti e troppo riconoscibili in se stessi per dare un senso effettivo di verità), il film si sviluppa accompagnando fiaccamente tre storie parallele, tutte e tre legate al mondo dei morti e dell'aldilà, e che inevitabilmente (ah, i cliché hollywoodiani) si devono incrociare verso la fine: una giornalista francese sopravvissuta allo tsunami appunto, un ex medium (Matt Damon) che ha rinunciato al suo dono (quello cioè di mettersi in contatto con i morti al solo contatto fisico con una persona che avevano conosciuto in vita, cosa che lo fa sembrare tanto Rogue degli X men) per recuperare una propria normalità, un ragazzino inglese figlio di madre tossica e che ha perso il gemello e lo "cerca" disperatamente. Il tutto si svolge in modo piuttosto piatto, con intermezzi che non danno tono in più alle vicende ma son lasciati lì penzolanti (il video del terrorista islamico, la ragazza che pianta Damon al corso di cucina dopo aver provato il suo dono - ehm, il poter parlare coi morti, le parentesi della giornalista nella casa editrice, ...) e con dialoghi a volte persino ridicoli da quanto sono prevedibili.
Nei personaggi, poi, non si scava più di tanto, vengono trascinati lentamente da una scena all'altra senza però che ci venga detto molto di loro. La loro unica caratterizzazione è quella di cercare un contatto con l'aldilà. E il film potrebbe anche ridursi a questo.
E' vero che c'è un specie di gentilezza nel raccontare la storia, una delicatezza quasi pudica nell'affrontare il grande spauracchio della morte (soprattutto nella vicenda del ragazzino), però in qualche punto si scivola nello strappalacrime e alla fine tutto si riduce a un già visto.
La conclusione lascia poi un po' interdetti, un happy ending neanche tanto marcato, quasi si dovesse finire in qualche modo, che poi uno si chiede cosa veramente volessero farci capire con questo film: che dobbiamo credere nell'aldilà? che fra migliaia di ciarlatani ci può essere effettivamente qualcuno che parla veramente coi defunti? che possiamo scoprire la verità sulle cose cercandole su Google? che la non-morte è un'esperienza plausibile e dovremmo tutti credere in qualcosa che va oltre la nostra percezione, seppur non sfociando nella religione?
Boh, se era una di queste io non l'ho capita. Come non ho capito il film, del resto, pur dispiacendomene un sacco.
p.s. Segnalo recensione fenomenale (e molto più cattiva) su Nazione Indiana.
sabato 8 gennaio 2011
Inception o la fine dei sogni
Inception di Christopher Nolan è un film fatto per essere spettacolare ma è allo stesso tempo estremamente complesso dal punto di vista narrativo. Lo è a tal punto che bisogna ragionarci a fondo per riuscire a comprenderlo senza perdersi negli strati della trama che si incastrano come scatole cinesi. E' sorprendente, inoltre, perché della strutturazione narrativa mostra anche le debolezze e anche le straordinarie capacità.
Ambientato nel mondo dei sogni, tratta di una squadra di architetti onirici che devono impiantare un'idea nella mente di un giovane tycoon, e per farlo devono addentrarsi a più livelli nel suo subconscio, cercando però di mantenere aperta la via per ritornare "a casa", nella realtà cioè. Il plot multilivello, però, a un certo punto fa perdere la cognizione di ciò che è effettivamente reale e ciò invece che è creato dall'immaginazione del sonno. La forza della storia sta nel momento finale (spoiler: segue rivelazione, quindi meglio che vi fermiate se non l'avete visto): questi personaggi che viaggiano nel sogno tengono con sé un totem, un oggettino di piccole dimensioni di cui conoscono peso e conformazione e che serve loro come prova sicura di essere tornati alla veglia; il protagonista (DiCaprio) ha con sé una trottola, la quale continua a girare incessantemente se si è nel sogno, inevitabilmente cade, invece, se lui è sveglio. Ecco, il finale è proprio questo: la trottola gira, come ultima prova all'attenzione degli spettatori (che, ineffetti, hanno passato tutto il film con il dubbio - il timore? - che alla fine l'intero ambaradan si riveli un viaggio onirico), e continua a girare... E il film si interrompe: il nero arriva proprio nell'istante in cui la trottola sta per cadere. Oppure no.
E' stato tutto un sogno, dunque? La complicata avventura di questi architetti si rivela una strana elaborazione dell'ossessionato DiCaprio? E sarebbe deludente alla fine scoprire ciò? Oppure non sarebbe meglio chiedersi: ha senso farsi tutte queste domande?
Il finale di Inception mi ha fatto venire in mente un altro film molto avvincente, Caché di Michael Haneke: è la storia di un affermato critico letterario la cui vita è rovesciata dall'arrivo di anonime e inquietanti cassette che riproducono la sua vita, come se un misterioso scrutatore lo volesse mettere di fronte alla sua stessa quotidianità. Il fatto è che il film finisce con un suicidio improvviso e angosciante, ma con la mancata risoluzione del mistero (anche se un indizio rivelatore è nascosto appena prima dei titoli di coda...). Il che, dato anche il teso sviluppo del film, lascia lo spettatore più che sbigottito. Un amico a cui, entusiasta, l'avevo consigliato, si è indignato per la "mancanza di una fine". Concetto diffuso, in effetti: ogni opera narrativa (e anche i film, quelli fatti bene, lo sono) si suppone debba avere una fine, una conclusione, una risoluzione della trama. Ma, a pensarci bene, la soluzione 'e vissero tutti felici e contenti' è sempre più scontata.
Pensiamo ai bellissimi racconti di Carver (soprattutto quelli di Cattedrale): lo scrittore americano entra nella vita dei suo personaggi derelitti con una specie di luce che illumina le loro esistenze complicate fino a quando, all'improvviso e senza un'apparente motivazione, quella luce si spegne e quei personaggi vengono cancellati si può dire per sempre. Non sapremo mai che fine faranno, se usciranno dall'alcolismo, se troveranno un lavoro, se le coppie riusciranno a rinsaldarsi... Non lo sapremo mai, e questo è meraviglioso.
La meraviglia della scrittura è proprio questa: lo scrittore è un essere onnipotente che decide delle sorti delle sue creature e delle proprie trame, può decidere come spezzarli, come curarli, come e per quanto tempo farli vivere. E il compito del lettore non è quello di pretendere di più, di volere che la storia continui, che i misteri vengano sciolti, che ci sia un seguito. La conclusione è quella che decide il narratore, il lettore deve essere suggestionato da ciò che ha potuto esperire, credere, vedere fino a quel punto che gli è dato conoscere.
Per fare un esempio più pop, pensate a Lost: per sei anni milioni di telespettatori sono rimasti incollati alle vicende di questi naufraghi su un'isola deserta che più misteriosa non si può, e alla fine (spoiler/2: svelo la fine anche di questo, quindi attenzione; ma se non avete visto né Inception né Lost, che state qua a fare? rimediate, no?) si scopre che era tutto un limbo in cui i personaggi dovevano stare fino a che non avessero accettato la loro vita e la loro morte. Ora qui la fine c'è in effetti, però in un mondo complicato e così fortemente generatore di aspettative come quello dell'"isola" una conclusione soddisfacente (soddisfacente per tutti, almeno) era forse praticamente impossibile.
Insomma, forse quello di una conclusione, di un happy o sad ending che sia, di una fine col punto definitivo è un cliché che ha fatto il suo tempo. Molto più stimolante è la mancanza di fine, quella tanto odiata da chi è affezionato alle storie di vecchio stampo, ma così stimolante per chi dalla narrativa vuole quasi una sfida, una tensione che in realtà non finisca mai, un pungolo che vada oltre la parola scritta e ti penetri dentro, come un infinito svolgersi di storie e possibilità.
Non a caso, secondo me, questo aspetto di non-ending si è sviluppato sempre di più con la modernità e il modernismo (da Mrs Dalloway di Virginia Woolf, a The Crying of Lot 49 di Pynchon, a Imperial Bedrooms di Easton Ellis...), quasi che la nostra realtà, la nostra condizione attuale ci impedisca o ci metta adosso il timore di pronunciare definitivamente la parola 'fine'. Quasi non potessimo liberarci dal sospetto che, una volta finito tutto, scopriremo che è stato solo un sogno.