The King's Speech è un film pacato e interessante, percorso da un'ironia diffusa e un sentimento pervasivo. E soprattutto fa recuperare uno dei significati fondamentali del cinema: quello di raccontare storie laterali, minori, di cui altrimenti difficilmente verremmo a conoscenza, storie che sono piccole e nascoste e per questo grandi e potenti.
Il tono del film è poi delicato, essenziale lento al punto giusto. Colin Firth è magnifico nell'interpretare il balbuziente Giorgio VI, a mostrare le fragilità di un uomo messo di fronte a responsabilità incommensurabili, ma anche alla possibilità di riscatto di una vita passata nell'ombra e nell'insicurezza; convincentissimo quando mostra la difficoltà essenzialmente fisica del re di pronunciare le parole, quando recita questo inceppo con gli occhi, con la bocca tremante, con il viso paonazzo, con la gola bloccata. Geoffrey Rush, invece, è perfetto nella parte del tagliente e ficcante logopedista australiano, anche lui con le sue insicurezze e i suoi insuccessi.
La ricostruzione delle vicende della famiglia reale (anche allora densa di scandali, come il rapporto non tollerato fra Edoardo VIII e la divorziata americana Wallis Simpson, per cui sarà poi costretto ad abdicare) non è sfarzosa o di maniera, si concede invece ad aspetti di una qualche sincera intimità (la regina Vittoria Maria che non riesce ad abbracciare il figlio Edoardo dopo la morte di Giorgio V, ad esempio). Nonostante siano poi gli anni che si affacciano al dramma della seconda guerra mondiale (e alcuni hanno avuto da ridere sull'esattezza storica di alcuni tratti del film: sembra che anche Giorgio VI, ad esempio, non fosse poi così indifferente al fascino di Hitler), il film si percorre spesso con il sorriso e, alla fine, si vive come una distensione, una vittoria sulla difficoltà e sulla paura. La vittoria di uomo che forse è però interessante solo perché quell'uomo alla fine è diventato re.
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