venerdì 30 dicembre 2011
La grande menzogna
mercoledì 14 dicembre 2011
For Paris is a moveable feast
E poi la maestria di Woody Allen, che mostra qui il suo attaccamento alla Ville Lumière come aveva fatto in Manhattan per New York, è proprio quella di coinvolgerci in una spola fra passato e presente che ha come destinazione principale una Parigi senza fronzoli, senza retorica, ma piena di poesia: quella degli anni Venti, in cui per la città circolavano Hemingway, Scott Fitzgerald, Cole Porter, Dalì, Picasso, Gertrude Stein e compagnia bella. In fondo tutto il film è un elogio del passato anche se il finale fa capire che il passato è meglio riviverlo nel proprio presente piuttosto che nel ricordo malinconico di ciò che è stato. Certo che salta subito all'occhio - e Allen è geniale e spietato anche in questo - che mentre negli anni Venti i personaggi parlano di manoscritti da valutare, di virilità da analizzare, di sogni da mettere in arte, nel 2010 si parla di repubblicani, guerra in Iraq e mobili da migliaia di euro.
Se si vuole trovare qualche difetto forse la trama è un po' lenta, anche se la sceneggiatura è davvero brillante, e Owen Wilson è un protagonista un po' troppo "immobile" pur provando con un certo successo a essere il più alleniano possibile.
Un'altra considerazione, poi: il film è pieno di riferimenti all'ambiente culturale della Parigi della Lost Generation, dove si incontravano artisti e intellettuali di ogni genere; forse per star dietro ed apprezzare appieno tutti i riferimenti (anche sottili, come quando Hemingway chiede al protagonista cosa ne pensi di Mark Twain e lui gli risponde con una frase che effettivamente è stata detta da Hemingway stesso: "Penso che tutta la letteratura americana sia nata da Huckelberry Finn") è meglio fare un piccolo ripasso: magari leggendo Festa Mobile dello stesso Hemingway, oppure Shakespeare and Company di Sylvia Beach, fondatrice della mitica libreria in rue de Fleurus dove si riuniva l'intellighenzia dell'epoca. Allora sì che vi verrà nostalgia, quella vera.
sabato 3 dicembre 2011
Incipit&Explicit 5
“Dalle case non sparavano più, tanto erano contenti e soddisfatti della liberazione. Johnny si alzò col fucile di Tarzan ed il semiautomatico...
Due mesi dopo la guerra era finita.”
Termina così “Il partigiano Johnny” di Beppe Fenoglio. O meglio: non termina. O, anzi, sì, in effetti termina, un punto fermo c’è e la conclusione della storia è che la guerra è finita. Però che fine ha fatto Johnny, il partigiano poco più che adolescente che abbiamo imparato a conoscere in quattrocento pagine di romanzo? Avrà la meglio o sarà sopraffatto? Vincerà o perderà la sua ultima battaglia?
Non lo sapremo mai e, in qualche modo, io sono anche convinto che non abbiamo più di tanto il diritto di chiedercelo. Gli autori non terminano le loro opere per svariati motivi e, anche nel caso in cui queste vengano pubblicate, i lettori devono in qualche modo accettare che possano non avere una conclusione soddisfacente e accettabile.
Nel caso di Fenoglio, “Il partigiano Johnny” non ha una fine a causa delle revisioni incessanti a cui sottopose per anni l’opera (ne esistono ben tre versioni semicomplessive) e anche a causa della sua prematura morte. Ma il finale aperto potrebbe derivare anche da una voluta sospensione di giudizio, sulla vita di Johhny ma anche sulle sorti dell’epopea resistenziale in genere.
Come lettori, qualsiasi siano le cause, facciamo fatica a tollerare questo tipo di finali: a volte ci dispiace quando un libro finisce, figurarsi quando non si conclude. Ma il finale aperto può essere anche una miniera di suggestioni e interrogativi che danno il senso della potenza e dell’infinita capacità della creazione narrativa. Per sconfinare nell’ambito dei film, basta pensare alla straordinaria scena conclusiva di Inception: il fatto che quella trottola si fermi oppure no può generare ipotesi infinitamente diverse. Ma noi non avremo mai risposte definitive. E questo è straordinario.
A proposito di opere incompiute, è uscito da poco, per ora solo in inglese, The pale king di David Forster Wallace, suicidatosi prima di concludere il libro. Quando ci troveremo di fronte a quel finale irrisolto, proveremo angoscia, frustrazione. Ma quello sarà anche il tributo ultimo a una vita geniale.
Incipit&Explicit di questo mese:
Fabio Bartolomei, Giulia e a ltri 1300 miracoli (e/o)
“«L’ultimo lavoro cinque anni fa…».
«Sì, cinque».
«Adetta alle vendite, ramo moda… di preciso?»
«Commessa. Da Cherì, presente? Quel grande negozio a viale Marconi, all’angolo…».
Sorrido ironico e annuisco quando dice “commessa”. Odio i curriculum, odio essere preso in giro…”
*
“Adesso saremmo un gruppo di normalissimi esseri umani che se la fanno sotto dalla paura ma hanno le palle per girare in macchina e tornare indietro. Però chissà. La nostra storia non è finita. Questa giornata poi, è appena iniziata.”
giovedì 10 novembre 2011
Moto d'orgoglio
La cosa più dolorosa di tutta questa situazione di instabilità e terrore del precipizio - finanziario a livello generale, e politico per l'Italia in particolare - è che ci fa traslare la responsabilità altrove: sono i mercati, sono le borse, sono le banche centrali, sono le manovre economiche dei governi. E nessuno può farci nulla nel suo piccolo, se non fare come le formiche di Gino e Michele. Per non parlare del fatto che la maggioranza delle persone quando legge un pezzo sulla situazione attuale in cui compaiono sessantacinque volte le parole 'spread' e 'bund' già non ci capisce più nulla.
La conseguenza un po' naturale è che si stia lì ad aspettare il cadavere che passi sul fiume, con la netta sensazione che non si possa evitare l'assassinio, magari cercando di fare il possibile nel frattempo per non buttarcisi anche noi, nel fiume.
Però se siamo arrivati a questo punto la responsabilità - piccola piccola - deve essere stata anche nostra. Non ci siamo informati a dovere. Non abbiamo votato come avremmo dovuto. Abbiamo lasciato perdere quando altri esprimevano opinioni incomprensibili e o si lasciavano andare a comportamenti che forse avremmo potuto redarguire. Ci siamo salvati il fegato, ma dannati un po' l'anima. Non è questione di essere migliori di altri o dare lezioni (cfr. Un grande paese di Sofri: secondo me dovremmo poi tutti ripartire dalle cose dette in quel libro lì), è semplicemente questione di darsi da fare, essere migliori soprattutto per e con se stessi.
E' quello che dovremmo fare un po' tutti in questo momento. Migliorarci. Essere più bravi. Impegnarci di più. Essere più buoni anche, se volete. Le crisi - dicono gli studiosi - sfociano sempre in periodi di ripresa: beh, nell'attesa cerchiamo di essere più preparati di fronte a quella ripresa, più consapevoli, più liberi.
E' il moto d'orgoglio di cui parlavo prima: non è il "Fate presto" del Sole 24 ore di oggi (messaggio pur da condividere), è il "Facciamo presto e meglio" di tutti quanti sempre.
Non so: leggiamo un giornale in più, facciamoci dare lo scontrino al bar che non ce lo fa mai, decidiamo di dare il 5 per mille alla ricerca quando sarà il momento, non spendiamo solo per placare la nostra tristezza, stiamo a sentire chi sta peggio di noi, cediamo il posto in metropolitana a una vecchietta, non parcheggiamo in seconda fila, non rinunciamo mai a spiegare a un bambino anche le cose più complicate, andiamo nelle botteghe equosolidali, dialoghiamo sempre anche con quelli che la pensano diversamente da noi ma non per convincerli ma per far vedere che pensarla diversamente non è un crimine, ma uno stato di fatto che rende ricchi, non parliamo male dell'Italia, sorridiamo di più per strada. Sono cose inutili dal punto di vista pratico e troppo buoniste per avere senso? Può darsi. Siamo anche buonisti per una buona volta, ma siamolo per essere migliori. L'importante è che non ci sia una resa, ma una determinazione. Si tratta di non diventare aridi, e vecchi. Nelle cose piccole e insignificanti, come in quelle grandi e importanti. Non lasciamo nulla al caso, nulla ad altri.
Così non ci saranno scuse, la prossima volta che le cose andranno male. Siamo noi i protagonisti. E' di noi e dei nostri destini che si gioca in Borsa in questi giorni. Difendiamoci soprattutto da noi stessi, dalla rassegnazione, dall'apatia. Dimostriamo che questa crisi non ci appartiene, non l'abbiamo creata noi e che anche grazie a noi ne usciremo.
Siamo tutti più orgogliosi. Più bravi. Perché ce la faremo.
domenica 6 novembre 2011
La recensione lusinghiera
giovedì 3 novembre 2011
Il re é pallido
David Foster Wallace si è tolto la vita il 12 settembre 2008. Nel garage in cui si era impiccato, molto probabilmente a causa della feroce depressione che era tornata a tormentarlo, aveva fatto in modo che la moglie trovasse, ben impilate, tutte le centinaia di fogli e manoscritti che avrebbero dovuto costituire la sua nuova creazione letteraria. “The long thing”, la chiamava Wallace, un romanzo mastodontico su cui lavorava dal 1997, anno in cui era stato pubblicato Infinite Jest, il libro che l’aveva consacrato come nuovo talento geniale della letteratura americana.
Quando un artista muore così prematuramente, soprattutto quando sceglie di morire in questo modo, c’è sempre il problema di ciò che lascia indietro, della sua “eredità” incompiuta. La questione è quella di rispettare le volontà dello scrittore, riuscendo però a vincere l’irresistibile curiosità di sapere, di accedere ancora a una parte dell’autore. Come dice Michael Pietsch, curatore dell’ultimo libro: “Chiunque lavorasse con David sa bene che avrebbe impedito al mondo di vedere un’opera non corrispondente ai suoi standard. Ma… David, purtroppo, non è qui per impedirci di leggere, o perdonarci perché vogliamo farlo.”
Nel caso di David Foster Wallace non si può capire fin in fondo quanto lui avesse voluto veder pubblicata l’opera così come l’aveva lasciata prima di morire, incompleta: certo, far ritrovare i manoscritti e i file di computer con annotazioni e bozze di trama è un segnale piuttosto evidente; è anche vero che, durante i lunghi anni di lavorazione, Foster Wallace aveva frequentemente espresso perplessità sull’evoluzione dell’opera: avendo scritto centinaia e centinaia di pagine, parlando coi suoi editor ne riteneva utilizzabili solo poche decine. In una lettera a Jonathan Franzen, poi, dichiarava sconsolato: “Sono stanco di me stesso, mi sembra: stanco dei miei pensieri, associazioni, sintassi, delle varie abitudini verbali che sono passate da esplorazione a tecnica a tic involontario.”
The Pale King, quell’ultimo libro non terminato appena pubblicato in America (in Italia uscirà prossimamente per Einaudi), ruota attorno alle vicende degli uffici esattoriali statunitensi, braccio lungo di un tax system complesso e gigantesco che ha il compito di controllare i contributi dei cittadini (ironicamente di attualità, oggi che Obama deve fronteggiare manovre economiche da trilioni di dollari). Un’attività fatta di contabilità, controlli infiniti di bilanci e documenti, inserimento di cifre in minute colonne: insomma, non esattamente un argomento vivace per un romanzo. Forse l’obiettivo di Foster Wallace era proprio quello di condensare la monotonia e la noia di una tale occupazione – e, per estensione, dell’esistenza – nella forma romanzesca. E, assieme a ciò, un sacco di temi che mettono di fronte l’uomo ai limiti del controllo sulla propria esistenza, in una serie di opposizioni rappresentative della vita odierna: il singolo contro il sistema, l’individuo contro il gruppo, l’essere umano contro la macchina, la fantasia contro la depressione.
Come tipico di Wallace, The Pale King è una moltiplicazione infinita di spunti, sprazzi narrativi, personaggi apparentemente slegati fra loro, false partenze e conclusioni cieche: il risultato finale (o, meglio, quello che per noi è la forma finale) è un accumulo irrelato di indizi e possibilità di racconto. Non c’è una vera trama, se non abbozzata nelle note che l’autore aveva sparso per tutto il suo lavoro. Non c’è la soddisfazione di una grande storia. Eppure le cinquecento e più pagine del libro fanno affluire in continuazione la grande verve narrativa wallaciana, fatta di un’imprescindibile ironia, di un’inventiva irrefrenabile, di un acume linguistico che a volte, data la sua sovrabbondanza, toglie quasi il fiato. E’ un documento che ci testimonia le potenzialità di un autore che ha rinunciato, alla fine, a quelle proprie potenzialità.
Oltre che a una grande opera sulla contabilità (Foster Wallace aveva seguito per anni, in preparazione, dei corsi di ragioneria), The Pale King è anche una grande miniera di temi metanarrativi: già il fatto che il lavoro dell’editor sia stato così evidente (e inevitabilmente invadente) è significativo, in quanto ha dovuto riordinare gli scritti, inserire note e prefazione per cercare di dominare un fiume narrativo inarrestabile. Per di più, Foster Wallace si diverte a inserire nel corso dell’opera suoi interventi diretti, in cui finge di presentarsi come un personaggio fittizio dal nome, appunto, di David Wallace. Come se non bastasse, l’autore si diverte a confondere le acque, giocando sulla veridicità dei fatti narrati: “Mi serve che la leggiate, l’avvertenza, e capiate che quel ‘I personaggi e gli eventi di questi libri sono opera di fantasia’, includono anche le presenti parole dell’autore … quell’avvertenza definisce tutto quello che segue come finzione, anche se io vi sto dicendo qui che tutta questa cosa che racconto non è finta”.
Già con Infinite Jest, David Foster Wallace aveva dimostrato di rappresentare un approccio assolutamente inedito e geniale nei confronti della letteratura, delle potenzialità narrative del genere romanzo: collocandosi sulla strada già segnata di DeLillo, Irving e Pynchon, Foster Wallace aveva però alzato l’asticella, moltiplicando i livelli umoristici e le sottigliezze linguistiche delle sue opere, esplorando i mondi complessi e perversi della paranoia, della dipendenza e della libertà più o meno condizionata, più o meno consapevole. Anche con The Pale King dimostra come la vita possa essere rappresentata nella moltiplicazione esasperata e esasperante delle esperienze, delle emozioni, delle noie e delle ossessioni. Una volta Wallace dichiarò che “la narrativa riguarda ciò che significa essere un fottuto essere umano” (“Fiction’s about what it is to be a fuckin’ human being”). Essere umani non è facile, anzi, a volte può essere un compito proprio spiacevole. Forse, in ultima analisi, Foster Wallace voleva dirci proprio quello. Alla fine di The Pale King non arriveremo a capirlo compiutamente, tanto più che l’autore non ne era nemmeno soddisfatto: non è la fine che avremmo voluto, ma è la fine che Foster Wallace ha voluto per se stesso.
giovedì 27 ottobre 2011
La limpida sensazione
Troppo presto per parlarne, ovviamente. Dico solo che ultimamente l'autore mi dà un po' su ai nervi, ma è una sensazione irrazionale e il povero Baricco nulla fa per alimentarmela. Anzi, credo che l'unica spiegazione del mio fastidio (che poi non è fastidio vero e proprio, alla fine il libro lo leggerò e mi piacerà - ho deciso in questo momento che mi piacerà, è piuttosto una noia, non so...) debba attribuirsi a tutti gli amici che stimo ma che non amano (eufemismo!) Baricco e per questo non perdono occasione di dirmelo, convincendomi quasi. Diciamo che mi dà fastidio per osmosi, ecco.
Tornando a Mr Gwyn: da qualche parte ho letto che Baricco ha dichiarato di aver cambiato un po' stile, soprattutto se si ripensa agli esordi con Castelli di rabbia e Seta; nel breve estratto pubblicato oggi vien quasi da credergli, sembra essere più denso, più reale (irrompono concreti riferimenti alla realtà fattuale, come la citazione del quotidiano Guardian, o l'agente letterario che più credibile non si può), anche se non mancano i baricchismi tradizionali.
Colpisce che nelle primissime righe ci sia una frase che stona parecchio, per via di congiuntivi che non tornano (l'ha notato anche Luca Sofri in un tweet): "Jasper Gwyn ebbe d'un tratto la limpida sensazione che quanto faceva ogni giorno per vivere non era più adatto a lui". Sto aspettando la notizia di un accademico della Crusca stroncato da un coccolone mentre sorseggiava il caffé e leggeva Repubblica stamattina. Baricco non è mai stato un "grammatico" osservante, anzi, ma questa frase stona proprio, è brutta e difficilmente può riprodurre con verosimiglianza i pensieri di uno scrittore quale è il protagonista del romanzo.
Pare che a Baricco si possa perdonare tutto, però. (Ecco, vedete quel fastidio che dicevo? Mi esce fuori che neanche me n'accorgo... Recupererò con la recensione lusinghiera che pubblicherò dopo la lettura. Ho deciso, lo so: sarà lunsighiera.)
A pagina 49 c'è poi anche l'immaginetta che promuove l'inserto Il Venerdì, con Baricco appunto in copertina e il titolone: "La letteratura non è più un'arte" (vabbé, e poi io in cosa credo?). E poi una citazione dall'intervista: "Più che uno scrittore mi sento un calzolaio delle parole." Ecco, il fastidio sta diventanto reale (ma Mr Gwyn mi piacerà, lo so).
mercoledì 26 ottobre 2011
Stuff I've been reading/4
Quenti Bell è figlio di Clive Bell e di Vanessa, sorella di Virginia Woolf, quindi era nella cerchia familiare più intima della scrittrice inglese: ma in questa poderosa biografia veste impeccabilmente i panni dello storico - sua professione - e racconta la storia tragica ma soprattutto intensa della vita di Woolf, sempre al confine fra creatività debordante e depressione acuta. Come dice il risvolto di copertina è una biografia fra le più complete sulla scrittrice: non solo cita le sue opere collegandole sapientemente ai periodi e alle ragioni di composizione, ma riporta anche brani di diari, di lettere, perfino di conversazioni dell'autrice ma anche del circolo di intellettuali, artisti e conoscenti che la circondavano.
Questa biografia, come spesso si sente dire in questi casi, non assomiglia affatto a un romanzo, anzi: è il racconto di una vita vera, vissuta, sofferta e molto amata. L'amore è spesso presente in questo viaggio biografico, soprattutto quando si parla del rapporto fra Virginia e il marito Leonard ("Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi", scrive lei nel biglietto d'addio al compagno di mezza vita) e tutta una vita percorsa dall'amore (per l'arte, la raffinatezza, la libertà ma in particolare per le persone brillanti) arriva a spiegare fino in fondo l'ultimo estremo gesto di Woolf - raccontato qui con una delicatezza e una lucidità quasi impalpabili - che alla fine è stata una decisione di amore, più che di disperazione. Coloro che amano a fondo la scrittrice che è stata Virginia Woolf difficilmente vorranno arrivare all'ultima triste pagina, nella convinzione che poi quella vita straordinaria non è più continuata.
(Una piccola nota negativa: nell'edizione La Tartaruga che ho io, del 2011, i refusi sono insopportabilmente frequenti, praticamente intollerabili, fino ad arrivare alla ripetizione, a un certo punto, di un intero paragrafo.)
Raymond Carver, Il mestiere di scrivere, Einaudi
Titolo piuttosto ingannevole quello di questo volume miscellaneo messo assieme da Einaudi per raccogliere gli scritti dello scrittore americano Carver. Nel senso che è vero che vi si trovano gli scritti in cui Carver parla del mestiere di scrivere, ma parla solo ed esclusivamente di se stesso, di come è nata e ha faticosamente preso forma la sua attività di narratore. E, in effetti, a parte un paio di saggi che sono di un'efficacia fulminea e pregante, il resto è materiale d'assemblaggio un po' ripetitivo, spesso riportando perfino gli stessi aneddoti (comprensibile, visto che Carver aveva messo assieme i testi per destinazioni completamente diverse e in momenti molto distanti fra loro).
Alcune riflessioni di Carver sulla scrittura esprimono comunque tutta la geniale pregnanza dell'autore, che riesce a ricondurre la semplicità dei momenti quotidiani a riflessioni acutissime sull'arte e la letteratura; interessante anche quando parla dei suoi gusti letterari. Paradossalmente, in questo volume dedicato all'attività di scrittore, Carver non nomina mai Lish, l'editore-tiranno a cui molto ritengono di dovere la caratteristica sintesi carveriana dato che interveniva pesantemente sui suoi manoscritti.
Di grande interesse anche gli apparati messi a disposizione in questa raccolta, come delle testimonianze sui corsi di scrittura creativa tenuti dallo scrittore nelle università americane (facendoci capire quanto in Italia stiamo ancora indietro...) e alcune attività appunto per affinare le capacità di scrittura.
Michael Cunningham, Una casa alla fine del mondo, Bompiani
Opera di esordio di Cunningham, giustamente traballante in alcuni punti, ma già pregna di tutto quello che sarebbe venuto poi. In questa storia le vite di due giovani ragazzi e di una ragazza s'intrecciano alla ricerca una direzione partendo da famiglie segnate dal dolore e dall'instabilità, instabilità che si ripercuote anche nelle loro relazioni sentimentali e nell'indecisione su che strada far prendere al loro futuro. Sullo sfondo l'ambiguità, il disagio giovanile, i postumi di educazioni post-hippie, e soprattutto la piaga dell'Aids.
Forse i personaggi principali - che si mescolando in un intreccio di relazioni amorose poco chiare, forse perfino all'autore - sono delineati un po' troppo piattamente, anche se un'apatia di fondo è proprio la dominante che si respira in tutto il libro. La sospensione sul finale lascia insoddisfatti per varie ragioni, soprattutto perché la storia non ha portato effettivamente un'evoluzione, se non esteriore, ai protagonisti. Eppure lasciarci lì sull'abisso è un po' una caratteristica di Cunningham, che ci fa così assaporare il gusto dolceamaro di vite sospese e angosciate, un gusto quasi come del sangue, sia esso infetto o pieno di giovane vita.
Gustave Flaubert, Memorie di un folle, Collezione IlSole24Ore-Libri della domenica
Rara perla ottocentesca, questa breve opera semiautobiografica ci regala un ritratto quasi inedito dell'autore di Madame Bovary e ci fa tuffare nella temperie culturale fatta di influssi e passioni variegati che era l'Ottocento romantico francese. La storia raccontata è di una banalità e di un trito allucinanti - delusione amorosa fa scaturire in giovane letterato disperazione e odio per il mondo, con unica soluzione il rifugio nelle arti - ma Flaubert ci mette dentro una carica emotiva e una precisione lesicale che lasciano a volte senza fiato. Gli si perdonano i manierismi, si accettano gli eccessi sentimentali, si passa sopra un'eccessiva consapevolezza di sè, anche perché ci sono alcune pagine che sono di un respiro che più ampio non si può.
Poi si scopre che è un'opera che l'autore ha composto a 17 anni, e allora l'ammirazione per questo gioiello breve ma intenso cresce a dismisura.
domenica 23 ottobre 2011
Incipit&Explicit 4
Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino è un libro che sorprende per tantissime ragioni. La principale è perché è un libro fatto di incipit.
Sviluppandosi come una straordinaria carrellata sulle potenzialità della parola e dell’inventiva, l’opera segue un lettore (il Lettore) alle prese con un romanzo di cui non riesce a proseguire la lettura a causa di misteriosi errori di stampa o problemi tipografici; la ricerca del seguito lo porterà a leggere ben dieci inizi di romanzi diversi e a trovare anche l’anima gemella: la Lettrice.
Calvino dimostra la sua genialità compositiva (composizionale) già nell’incipit vero e proprio del libro, un capolavoro di allusione metanarrativa: “Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell'indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c'è sempre la televisione accesa. (…) dillo più forte, grida: «Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino!» O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace.”
I mondi diversissimi fra loro che Calvino abbozza nei successivi dieci incipit – da una grigia rarefatta stazione al Giappone magico, a uno sperduto villaggio sudamericano… – danno l’idea di quanto la letteratura possa destrutturarsi pur rimanendo affascinante e coinvolgente.
In un estremo tocco di genio (non leggete questa se vi è venuta voglia di prendere il libro, fatelo dopo), Calvino ha legato i vari incipit dei capitoli in un ennesimo incipit autonomo: “Se una notte d’inverno un viaggiatore, fuori dall’abitato di Malbork, sporgendosi dalla costa scoscesa senza temere il vento e la vertigine, guarda in basso dove l’ombra s’addensa in una rete di linee che s’allacciano…”
La magia della letteratura sta nell’incipit, tutta quanta lì.
Incipit&Explicit di questo mese:
Quentin Bell, Virginia Woolf, mia zia (la Tartaruga)
“Da signorina, Virginia Woolf si chiamava Stephen. Quella degli Stephen è una famiglia che emerge dall’oscurità verso la metà del XVIII secolo. Erano agricoltori, mercanti e trafficanti di merci di contrabbando nell’Aberdeenshire.”
*
“Deposto il bastone sulla riva del fiume, si infilò una grossa pietra nella tasca della giacca. Poi andò incontro alla morte: «l’unica esperienza», come aveva detto a Vita, «che non descriverò mai».”
domenica 9 ottobre 2011
Traduzioni
Edward Hopper, Nighthawks (1942)
The door of Henry’s lunchroom opened and two men came in. They sat down at the counter.
“What’s yours?” George asked them.
“I don’t know,” one of the men said. “What do you want to eat, Al?”
“I don’t know,” said Al. “I don’t know what I want to eat.”
Outside it was getting dark. The streetlight came on outside the window. The two men at the counter read the menu. From the other end of the counter Nick Adams watched them. He had been talking to George when they came in.
“I’ll have a roast pork tenderloin with apple sauce and mashed potatoes,” the first man said.
“It isn’t ready yet.”
“What the hell do you put it on the card for?”
“That’s the dinner,” George explained. “You can get that at six o’clock.”
George looked at the clock on the wall behind the counter.
“It’s five o’clock.”
“The clock says twenty minutes past five,” the second man said.
“It’s twenty minutes fast.”
“Oh, to hell with the clock,” the first man said. “What have you got to eat?”
“I can give you any kind of sandwiches,” George said.“You can have ham and eggs, bacon and eggs, liver and bacon, or a steak.”
“Give me chicken croquettes with green peas and cream sauce and mashed potatoes.”
“That’s the dinner.”
Profondo rosso, Dario Argento (1975)
Homer vs. the 18th Amendment, The Simpsons (s. 8, ep. 18, 1997)
La pelle nuova di Almodóvar
La pellicola si può dire riservi molte novità rispetto alla storia cinematografica di Almodóvar: i suoi temi culto - l'identità sessuale, la violenza, la vendetta, la ricerca di sè ecc. - sono qui virati a una svolta essenzilamente dark, in un thriller dai tratti quasi fantascientifici (a me veniva spesso in mente L'isola del Dr. Moreau di H.G. Wells). La storia gira attorno alla folle mania creatrice di un chirurgo senza freni che ottiene in sala operatoria, oltre a una resistentissima pelle artificiale, una riproduzione esatta e perfetta della moglie scomparsa: tutto è però frutto di una terribile vendetta che finirà per consumare tutti i protagonisti coinvolti nella vicenda.
Il ritmo è intenso fin dalle prime scene, anche se la trama diventa via via banale mentre si fa sempre più assurda. C'è da dire che, d'altro canto, il film è di una perfezione e levigatura tecnica impressionante, anche se questo contribuisce all'impressione finale di un giocattolo visivo perfetto ma freddo che non lascia nulla di incisivo nello spettatore, se non due ore di ansia e tensione. I risvolti sociali che poi caratterizzano spesso i film del regista - qui si potrebbe trovare una riflessione sulla vendetta cieca, sulla disperata ricerca di perfezione estetica ecc. - sono alla fine un po' tutti tirati per i capelli.
E' comunque un Almodóvar sostanzialmente nuovo quello de La piel que habito, che si spoglia dei risvolti grotteschi e al contempo intimisti per narrare una storia cruda e fredda come il tavolo di una sala operatoria. Il regista spagnolo cerca nuove strade con la sua consueta maestria tecnica, però forse lascia perplessi quelli più affezionati alle sue opere precedenti, allo stesso modo disturbanti ma in qualche modo più calde e intime.
venerdì 7 ottobre 2011
Correndo con le forbici in mano
Più che un romanzo, Correndo con le forbici in mano, una specie di Auntie Mame della disperazione e del disagio (e con molto meno stile), sembra più una sceneggiatura di un tipico film indie, e in effetti è eglio la versione cinematografica che ne hanno tratto, Running with scissors (2006), diretta dal creatore di Glee Ryan Murphy e con un cast notevole, fra cui Anette Bening, Gwyneth Paltrow, Alec Baldwin e Joseph Fiennes.
mercoledì 5 ottobre 2011
Incipit&Explicit 3
(da Cabaret Voltaire di maggio)
Se iniziare uno scritto pare un’impresa titanica, finirlo lo è altrettanto, o forse di più: il rischio di cadere nel cliché, di dire troppo, di dire troppo poco è continuo e lacerante. Non resta che imparare dai grandi maestri, e rassegnarsi all’inscrutabile mistero emotivo e letterario che le conclusioni dei romanzi e dei racconti rappresentano.
Sono soprattutto gli scrittori americani, sulla scorta dei modernisti inglesi, ad aver magistralmente affinato la tecnica della rifinitura degli explicit: in particolare uno, secondo me, ha raggiunto vette inarrivabili. E’ Raymond Carver, che nella vita ha scritto praticamente solo racconti che sono di un equilibrio e di una compostezza al limite dell’inverosimile.
Carver ci fa entrare nelle sue storie di netto, e altrettanto nettamente ce ne fa uscire; niente fronzoli, niente digressioni, niente slanci verso il futuro: è come se illuminasse una stanza abitata dai suoi personaggi – tutti a loro modo disperati, ossessionati, irrisolti, spessissimo schiavi dell’alcool come lo fu lui nella vita – e a un certo punto, passato il tempo ritenuto necessario dall’autore, spegnesse la luce d’un tratto. Quei personaggi, quelle storie scompaiono nello stesso bagliore in cui erano apparsi: di loro non sapremo più nulla, anche se ci rimarranno un po’ dentro.
L’estrema sapienza di Carver, quel suo stile così asciutto e sfacciato e estremamente sincero è anche dovuto al massiccio intervento dell’editor che ne curò le opere, Gordon Lish, a volte operando tagli arbitrari e pesanti; tuttavia tornando a leggere le versioni originali, ad esempio nella raccolta Principianti (Einaudi), si riconosce sempre quell’inconfondibile stringatezza carveriana, quella sua volontà di esprimere tutto dicendo però solo l’essenziale. E, ancora una volta, quei finali così stupendamente letterari, nel senso che fanno percepire quanto potente sia la letteratura: è l’autore che decide quando è abbastanza, quando tutto deve finire, e il lettore se ne deve stare lì, accettando e rimuginando.
Se volete farvi un’idea dei racconti di Carver, fra tutti “Una cosa piccola ma buona”, “Di’ alle donne che usciamo” e “Cattedrale”.
Incipit&Explicit di questo mese:
Luca Sofri, Un Grande Paese (Bur Rizzoli)
“I tram di Milano hanno degli orari. Quando ci venni a vivere fu la prima cosa che notai, assieme al fatto che a Milano non c’è la nebbia. Nella città di provincia in cui vivevo si aspettava l’autobus fino a quando passava. Va’ a sapere quando.”
*
“E con gli occhi fissi sull’orizzonte e la grazia del cielo su di noi, abbiamo portato avanti il grande dono della libertà e l’abbiamo consegnato intatto alle generazioni future.”
Creatività per ciechi
venerdì 30 settembre 2011
ˈkɑːnɪdʒ
La conclusione, che arriva dopo nemmeno un'ora e mezza, verte soprattutto sull'inutilità della parola: due coppie di genitori si incontrano per appianare la lite violenta fra i rispettivi figli, cercando prima una conciliazione ma precipitando di frase in frase in un delirio di violenza e assurdità verbale. Non credo che la pièce originale avesse un effetto così grottesco come l'ha il film, dove si passa praticamente tutto il tempo a ridere delle idiosincrasie dei quattro adulti. Si ride anche delle maschere che ognuno nella società contemporanea si addossa - la salvatrice del mondo, il qualunquista, lo spietato maniaco del lavoro, la fragile frustrata -, anche queste maschere, a dir la verità, un po' troppo teatralmente esagerate.
Inutilità della parola, dunque, e di conseguenza inutilità del film se non fosse per gli attori che, quasi sempre, reggono bene un gioco delle parti serrato e estremamente umorale. Foster e Winslet sono forse troppo vignettistiche quando interpretano le loro parti da ubriache, Waltz, cinico, scostante, infido, è invece stupendo, senza contare che è austriaco e dovrebbe partire svantaggiato. Invece è il più bravo di tutti.
E' un film particolare, non sublime, però consigliabile. E se si sceglie di vederlo, vale proprio la pena di farlo in originale, giusto per il magnifico suono che la parola del titolo ha in inglese.
venerdì 23 settembre 2011
Decidetevi
Amy was in trouble
Difficile che qualcuno sia rimasto indifferente alla morte di Amy Winehouse, avvenuta per overdose lo scorso luglio. Piuttosto si hanno avuto opinioni forti ma contrastanti: quelli che ‘se-l’è-andata-a-cercare” e quelli che rimpiangevano una ragazza di 28 anni che col suo talento e la sua stravaganza ha segnato in modo incisivo il mondo della musica degli ultimi decenni. E l’ha fatto con un solo disco praticamente, Back to Black del 2007, un album che, mixando sonorità soul, jazz e R’n’b con la sua voce scura e pastosa, le ha valso vari premi (fra cui un Brit Award, tre Ivor Novello e ben cinque Grammy) e è divenuto il disco più venduto nel ventunesimo secolo dopo il suo decesso. Non solo: lo strabiliante successo di Winehouse ha anche dato nuovo impulso alla musica UK, spianando la strada a vocalità come quelle di Adele, Duffy e, perché no, anche Lady Gaga.
Ma Winehouse non aveva solo una voce e una potenza musicale rare, sapeva anche imporsi per la sua personalità indomabile e votata agli eccessi: “When you smoke all my weed, man / You gotta call the green man / So i can get mine (Se fumi la mia erba, uomo / devi chiamare l’uomo verde / così posso prendere la mia)” canta in Addicted. Espulsa dagli Usa per abuso di droghe, cacciata da vari locali per litigiosità, fischiata dai suoi fan ai concerti in cui si presentava barcollante e incapace di cantare: ma Amy continuava imperterrita, fiera dalla sua identità e fregandosene dei giudizi altrui. E’ chiaro nella sua canzone più famosa, Rehab: “They tried to make me go to rehab but I said No, no, no (Han tentato di farmi riabilitare ma ho detto no, no, no)”. Non che questo suo rifiuto di ritorno alla normalità significasse una sua mancanza di consapevolezza: la lettura dei suoi testi più belli rivelano una personalità oscura, travagliata e al contempo estremamente poetica: “he tries to pacify her / ‘cause what’s inside her never dies (lui tenta di calmarla / ‘ché ciò che ha dentro non muore mai)” rivela in He Can Only Hold Her; “I told you, I was in trouble / you know that I’m no good (Te l’ho detto, sono in un casino / lo sai che non so niente di buono)” recita in un’altra canzone.
Le sue canzoni non rivelano una personalità autodistruttiva, piuttosto dicono di un’anima ferita (non si sa bene da cosa, forse dalla vita) che cerca di sanarsi attraverso la musica e, purtroppo, attraverso la perdizione dell’alcool e delle droghe. Ma probabilmente quello, per Amy, era un tentativo di salvezza, non di morte. “Love is a losing game” è il titolo di un’altra sua canzone, l’amore è un gioco a perdere, e forse anche la vita. Qualcosa lei doveva avvertirlo, comunque, se nel video del singolo Back to black inscenava il funerale del suo stesso cuore.
Dai testi emerge una Amy Winehouse complessa, scura, affranta e, soprattutto, sola: sempre in Rehab, “I don’t ever wanna drink again / I just, ooh, I just need a friend (Non berrò mai più / oh, mi serviva solo un amico)”. Quell’amico forse Amy l’aveva cercato nell’arte, ma si sa, l’arte può dare l’illusione della gloria, ma non ha mai salvato nessuno. Le droghe men che meno. E, in fondo, Amy sapeva già tutto: “I cheated myself / Like I knew I would (mi sono tradita / come sapevo avrei fatto)”.
lunedì 19 settembre 2011
Svizzeri cloni
Quindi due giornali piuttosto vicini geograficamente (non è raro vedere ticinesi andare in giro con Repubblica) e che non hanno nulla a che fare fra loro, hanno la stessa grafica e la stessa impostazione del giornale. Il mondo editoriale affoga, e l'originalità con essa.
martedì 13 settembre 2011
Incipit&Explicit 2
Ci sono opere che si basano sui loro stessi incipit, non avrebbero senso altrimenti. In qualche modo danno l’idea che la creazione originaria della letteratura sia come un parto, un momento che ha la sua massima potenza creativa, un big bang da cui tutto si origina e si evolve.
Me ne sono convinto innamorandomi di Urlo di Allen Ginsberg, che è un’opera fulminante e geniale, ironica e tragica, disperata e sublime. Ginsberg, come molti degli scrittori della Beat, scriveva sotto effetto di droghe varie e sperimentava la tecnica della cosiddetta scrittura automatica, quando cioè si inizia a scrivere di getto e non ci si ferma per pensare o rileggere o mettere le virgole.
Urlo (in originale Howl, ne hanno fatto anche un film con James Franco) ha la sua forza proprio in questo: è un fiume in piena, qualcosa di inarrestabile e quasi indefinibile, posseduto da un sotterraneo ritmo jazz; la lettura lascia allibiti perché sfiora continuamente l’incomprensibilità ed è di una suggestione rara.
Il fatto straordinario è che tutto il poema si fonda, almeno nella sua prima parte, sulle prime due righe a cui si ricollegano a cascata tutte le subordinate che seguono e che costituiscono il flusso incolmabile della poesia. Le due righe sono queste: “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia, morir di fame isteriche e nude”; meglio ancora, in originale: “I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving hysterical naked”: è un incipit che ti si scolpisce dentro, che brucia. Ha già dentro tutto quello che verrà poi: la lucidità, l’oscenità, l’inevitabilità, e poi la follia e la magia.
Difficilmente si ricordano (se non per immagini) i versi che seguono, da quanto sono complessi e onirici e psichedelici, ma quella prima frase è nitida e memorabile. In questo sta la sua forza, la forza di ogni buon inizio.
Urlo è un’esperienza di letteratura all’ennesima potenza, un’immersione che toglie il fiato (provate a recitarlo a voce alta, oppure cercate su YouTube la registrazione originale di quando Allen Ginsberg lo recitò la prima volta alla mitica Six Gallery di San Francisco nel 1955).
Come finisce, invece? Beh, in qualche modo finisce, ma è come se non lo facesse mai.
Incipit&Explicit di questo mese:
Luca Bianchini, Siamo solo amici (Mondadori)
“Nella scala dei piccoli dolori, il trasloco viene al secondo posto in assoluto.
Prima c’è il sospetto di un tradimento. A seguire, tutto il resto.”
*
“Un tonfo strano e familiare proveniva dall’esterno.
Aprì la finestra, e sentì il solito ragazzino che giocava a pallone tutto solo. Gli fece un fischio e scese a parare un rigore.”
Pop goes the world
Cos’è pop
Di tanto in tanto qualche giornale scopre su internet qualche nuova tendenza, per lo più effimera e banalotta, e decide di riempirci le pagine un po’ frou frou chiamate di alleggerimento. Molto spesso ciò che vi finisce dentro è etichettato come cultura popolare, o pop.
Ma cos’è veramente il pop, sempre più pervasiva marca dei nostri tempi? Innanzitutto uno pensa alla musica, ma anche lì basta fare un giro su Wikipedia (tempio assolutamente pop della conoscenza dei giorni nostri) per scoprire che la definizione non è univoca: se prima indicava tutta la musica opposta a quella classica, poi finisce per distinguere le canzoni leggere da quelle più colte, e infine arriva a far parte del binomio pop/rock (ma anche qui: cos’è il rock?).
C’è poi la pop art, grande invenzione dei fantastici anni ’50, dai notevoli prodotti finali ma che oramai è diventata un alibi per chi di arte non sa un’acca ma comunque vuole fare la posa (“Sai, a me piace molto la pop art”). Lì il concetto era quello di prendere elementi iconici di una cultura sempre più commerciale e massificata (dive del cinema, banane, cartelloni pubblicitari, fumetti…) e stampigliargli un po’ dovunque in collage e pastiche. Colori accesi e fluo, disordine formale, eccesso, stupore: già qui potremmo avvicinarci a qualche aspetto esteriore del concetto di pop. Ma non è abbastanza.
Perché poi c’è questa benedetta pop culture (l’hanno inventata gli inglesi, o forse Mtv), ed è praticamente la cultura diffusa e accessibile a tutti o, meglio, la cultura potremmo dire “percepita”, ciò di cui si parla in giro. Sono i fatti notevoli, i grandi eventi ma anche le sciocchezze mediatiche, il gossip, le storie rosa e nere delle celebrities o delle persone involontariamente diventate tali (dicono che ci siano delle magliette con Yara Gambirasio sopra, per dire). E’ un grande calderone in cui finisce dentro tutto, dall’alto al basso, dal serio al faceto, dal colto al burlesco. Federico Moccia è pop. Ma anche Saviano (leggete Popstar della cultura di Alessandro Trocino). La Pausini è pop, ma anche Vasco Rossi. Stare dalla parte dei rivoltosi arabi è pop, anche non volere più il nucleare dopo Fukushima lo è.
Gaga pop
Ma se c’è qualcosa che di questi tempi è assolutamente pop quella è Lady Gaga. Lei il pop ce l’ha nelle vene, sembra stata creata apposta per far diventare ogni sua azione un pittoresco evento pop. Si veste di carne, esce da un uovo, mangia crocifissi, indossa Alexander McQueen e Thierry Mugler, si fa gli zigomi finti, s’imbratta di sangue, dà vita a una nuova razza aliena. E’ un fenomeno talmente baraccone da incarnare alla perfezione i nostri tempi altrettanto baracconeschi: tutto è spettacolo, estetizzazione, esteriorità e cattura dell’attenzione di massa. Viviamo in un mondo in cui si è e si appare, azioni oramai indissolubilmente (e neanche poi tanto deprecabilmente) legate.
Il fatto è che di Lady Gaga, nel bene o nel male (ma più nel bene, dai) ne parlano tutti: tutti hanno qualcosa in comune, nel conoscerla (anche mio nonno di ottant’anni). E lei non è solo fuffa: la sua ultima canzone, Born this way, è un inno antemico all’accettazione di qualunque identità sessuale, religiosa, etnica. Alla fine non c’è concetto più pop di questo: accettare, essere in contatto con gli altri e i diversi, mettersi in relazione.
Non a caso un altro simbolo pop di questo inizio secolo non è forse Facebook? Diventare amici su Facebook è il gesto più popolare che si possa fare: mantenere i contatti, spiare la vita altrui, condividere contenuti e informazioni.
Tutto è pop
Alla fine nessuno potrà dirci esattamente cosa è pop e cosa non lo è. Forse, come tutte le etichette, è un marchio creato per dire tutto e niente, per mettere assieme qualcosa che assieme non potrebbe mai starci.
Eppure sentiamo da più parti dire che questo è un mondo assolutamente pop: la commercializzazione arrivata dovunque, la possibilità per chiunque di accedere teoricamente a qualsiasi cosa (soprattutto a qualsiasi conoscenza, Wikipedia – appunto – docet). Spariscono le élite culturali, i canoni estetici, le masse informi, tutti hanno l’iphone, tutti guardano i tg e i reality show. Scompare l’elitismo e scompare anche la rabbia di non essere in alto. C’è uniformazione, certo, e livellamento e un generale accontentarsi di un livello medio di quasi tutto. Però c’è anche molta più condivisione, scambio, più melting pot e più ibridazione: come sono pop i barbari della mutazione culturale (unica possibile salvezza futura, in un futuro in cui cultura non ce n’è), soprattutto quando ce li spiega Baricco!
Siamo pop, non vergogniamocene. Magari possiamo anche tirarci fuori qualcosa di buono.
sabato 19 marzo 2011
Franzen su Cabaret Voltaire
Lo scrittore Alessandro Piperno, nel recensire l’uscita in Italia di Libertà, il nuovo libro di Jonathan Franzen (pubblicato negli Stati Uniti l’anno scorso col titolo originale Freedom), cita una frase di Kafka: “Tu sei libero. E di qui inizia la tua perdizione.” Nemmeno l’autore, probabilmente, avrebbe potuto scegliere un’epigrafe così efficace per un libro del genere, un libro che ci mette di fronte all’epopea quotidiana d’America, alla sua incommensurabile, libera grandiosità, ai limiti di quella che è la delizia e la croce umana per eccellenza: la scelta.
Freedom è un romanzo complesso, non solo nella sua struttura formale ma anche da leggere. Ad esempio, pur essendo effettivamente notevole, ha dei punti di una noia e di una cavillosità da far desistere anche i meglio intenzionati. Eppure lascia un segno chiaro soprattutto nel finale, che è scontato ma talmente ben scritto da essere l'unico possibile per una storia così. L'effetto complessivo è quello di una grande cattedrale ben (forse troppo) strutturata.
Dopo Le correzioni (la sua terza opera, ma che l’ha lanciato come enorme rivelazione nel mondo letterario americano nel 2001), Franzen torna a dipingere un grande affresco di una famiglia, i Berglund, in cui tutti i componenti sembrano essere a loro modo disfunzionali: la madre ex campionessa ormai devota alla vita casalinga ma non appagata dalle scelte fatte, il padre perfezionista che combatte le sue personali lotte contro i mulini a vento della protezione ambientale e della politica, il figlio che vuole ribellarsi a tutti i costi al volere famigliare e quindi sposa l'insignificante vicina di casa e finisce per mettersi nei guai cercando una propria indipendenza, la figlia troppo apatica per accettare qualsiasi situazione.Continua a leggere sul sito del Corriere Vicentino, qui